Non aver paura di avere un cuore – Pasolini

Pubblicato sul Corriere della sera il 10 marzo 1975

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Il lettore mi perdoni, ma voglio tornare ancora sul problema dell’aborto, o meglio sui problemi che il discutere dell’aborto ha suscitato. Infatti quelli che veramente contano sono i problemi del coito, non quelli dell’aborto. L’aborto contiene in sé qualcosa, tuttavia, che evidentemente scatena in noi forze «oscure» ancora anteriori al coito stesso: è il nostro eros nella sua illimitatezza che esso mette in discussione – o su cui impone la discussione.

Per quanto mi riguarda, e come ho detto chiaramente – l’aborto mi rimanda oscuramente all’offensiva naturalezza con cui viene sentito in generale il coito. Tanta offensiva naturalezza rende così ontologico il coito da annullarlo. La donna pare trovarsi incinta come se avesse bevuto un bicchier d’acqua. Questo bicchier d’acqua è, appunto, la cosa più semplice del mondo per chi ce l’ha: ma per chi sia solo in mezzo a un deserto, questo bicchier d’acqua, è tutto, e non può essere che offeso da coloro che lo considerano un nulla.

Gli oltranzisti dell’aborto (cioè quasi tutti gli intellettuali «illuminati» e le femministe) parlano a proposito dell’aborto come di una tragedia femminile, in cui la donna è sola con un suo terribile problema, quasi che in quel punto il mondo l’avesse abbandonata. Capisco. Però potrei aggiungere che quando la donna era a letto non era sola. Inoltre mi chiedo come mai le oltranziste rifiutino con tanto ostentato disgusto la retorica epicizzante della «maternità» mentre accettano in modo del tutto acritico la retorica apocalittica dell’aborto.

Per il maschio l’aborto ha assunto un significato simbolico di liberazione: essere per l’aborto incondizionatamente gli sembra una patente di illuminismo, progressismo, spregiudicatezza, sfida. È insomma un bellissimo, gratificante giocattolo. Ecco perché tanto odio per chi ricordi che una gravidanza non voluta può essere, se non sempre colpevole, almeno colposa. E che se la prassi consiglia giustamente a depenalizzare l’aborto non per questo l’aborto cessa di essere per la coscienza una colpa.

Non c’è anticonformismo che la giustifichi: e chi di anticonformistico non possieda che un fanatico abortismo, certamente ne è seccato e irritato. E allora ricorre ai metodi più arcaici per liberarsi dell’avversario che lo priva del suo piacere di sentirsi spregiudicato e all’avanguardia. Tali metodi arcaici sono poi quelli infami della «caccia alle streghe»: l’istigazione al linciaggio, l’elencazione nelle liste dei reietti, la proposta al pubblico disprezzo.

La «caccia alle streghe» è tipica delle culture intolleranti, cioè clerico-fasciste. In un contesto repressivo, l’oggetto della «caccia alle streghe» (il «diverso») viene prima di tutto destituito di umanità, cosa che rende lecita poi la sua effettiva esclusione da ogni possibile fraternità o pietà: e, generalmente, in pratica, anticipa la sua soppressione fisica (Himmler, i Lager). Ma io ho detto e ripetuto più volte che la società italiana di oggi non è più clerico-fascista: essa è consumistica e permissiva.

Il fatto dunque che in essa possa scatenarsi una campagna persecutoria con arcaici caratteri clerico-fascisti, contraddirebbe tale mia affermazione. Ma si tratta di una contraddizione solo apparente. Infatti: primo, gli autori di tale goliardica, volgare, spregevole campagna contro la «diversità» sono quasi tutti uomini anziani, formatisi precedentemente all’età dei consumi e della sua sedicente permissività; secondo, in effetti – come ho appunto sempre detto e ripetuto – il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria – in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx) – e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini.

Infatti (è la battuta di uno dei protagonisti del mio prossimo film, tratto da De Sade e ambientato nella Repubblica di Salò): «In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa.» Che cosa permette la società permissiva? Permette il proliferare della coppia eterosessuale. È molto e giusto. Però bisogna vedere come in concreto ciò avviene. Intanto, ciò avviene in funzione dell’edonismo consumista (per adoperare parole ormai «franche», poco più che sigle): cosa che accentua fino all’estremo limite il momento sociale del coito. Inoltre ne impone l’obbligo: chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar. E poi impone una precocità nevrotizzante. Bambini e bambine appena puberi – dentro lo spazio obbligato della permissività che rende la normalità parossistica – hanno un’esperienza del sesso che toglie loro ogni tensione nello stesso campo sessuale, e, negli altri campi, ogni possibilità di sublimazione. Si direbbe che le società repressive (come diceva un ridicolo slogan fascista) avevano bisogno di soldati, e inoltre di santi e di artisti: mentre la società permissiva non ha bisogno che di consumatori.

Al di fuori, comunque, di quel «qualcosa» che la società permissiva permette, tutto è ripiombato – a scorno degli ideali progressisti e della lotta dal basso – nell’inferno del non permesso, del tabù che produce riso e odio. Si può continuare a parlare dei «diversi» con la stessa brutalità dei tempi clerico-fascisti: solo che, ahimè, tale brutalità è aumentata in ragione dell’aumento della permissività riguardante il coito normale. Ho già avuto occasione di dire che, a compensare la presenza di una certa élite di persone tolleranti (e gratificanti così la propria coscienza democratica) ci sono in Italia cinquanta milioni di persone intolleranti pronte al linciaggio. Cosa mai accaduta nella storia italiana.

Oggi aggiungo però che quelle élites di persone tolleranti hanno dimostrato chiaramente che la loro tolleranza è solo verbale; che in realtà li soddisfa pienamente l’idea di un ghetto dove mentalmente relegare i «diversi» (a far l’amore con chi?), e dove vederli come «mostri» in permesso, con cui è lecito ogni scherzo volgare. Si veda il caso di Maria Schneider, a proposito del quale tutta la stampa italiana si è comportata nel modo più sfrontatamente canagliesco e più sventatamente fascista. Ma c’è un’altra serie di considerazioni – che mi stanno ancora più a cuore – nate dalla amara meditazione di queste settimane.

Ho detto che l’essere incondizionatamente abortisti garantisce a chi lo è una patente di razionalità, illuminismo, modernità ecc’. Garantisce, nel caso specifico, una certa «superiore» mancanza di sentimento: cosa che riempie di soddisfazione gli intellettuali (chiamiamoli così) pseudo-progressisti (non certo i comunisti seri o i radicali). Tipi come Dino Origlia, tanto per fare un nome.

L’affermazione di tale «superiore» mancanza di sentimento, a proposito dell’aborto, mi è stata spudoratamente, istericamente e inconsapevolmente fatta pesare dalla maggior parte dei miei avversari. Un solo intervento in proposito è stato civile e veramente razionale: si tratta dell’intervento di Italo Calvino («Corriere della sera», 9-2-1975). Ed è su questo che vorrei discutere. Come me, Calvino proviene da una formazione e, ormai si può dire, da un’intera vita, passata sotto regimi tradizionalmente clerico-fascisti. Quando eravamo adolescenti c’era il fascismo: poi la prima Democrazia cristiana, che è stata la continuazione letterale del fascismo. Dunque era giusto che noi reagissimo come abbiamo reagito. Dunque era giusto che noi ricorressimo alla ragione per sconsacrare tutta la merda che i clerico-fascisti avevano consacrato. Dunque era giusto essere laici, illuministi, progressisti a qualunque patto.

Ora Calvino – sia pure indirettamente e col rispetto di una polemica civile – mi rimprovera un certo sentimentalismo «irrazionalistico» e una certa tendenza, altrettanto «irrazionalistica», a sentire una ingiustificata sacralità nella vita. Per quanto riguarda una discussione diretta, limitata all’aborto, vorrei ribadire a Calvino che io non ho mai parlato di una vita in generale, ma ho parlato sempre di questa vita, di questa madre, di questa pancia, di questo nascituro. Ho evitato ogni generalizzazione (e se ho usato a proposito della vita la qualifica di «sacra», si è trattato evidentemente di una citazione, non priva di ironia). Ma non è questo che qui importa.

Il problema è ben più vasto, e comporta tutto un modo di concepire il proprio modo di essere intellettuali: consistente prima di tutto nel dovere di rimettere sempre in discussione la propria funzione, specialmente là dove essa pare più indiscutibile: cioè i presupposti di illuminismo, di laicità, di razionalismo. Per inerzia, per pigrizia, per inconsapevolezza – per il fatale dovere di adempiersi coerentemente – molti intellettuali come me e Calvino rischiano di essere superati da una storia reale che li ingiallisce di colpo, trasformandoli nelle statue di cera di se stessi. Il potere non è più infatti clerico-fascista, non è più repressivo. Non possiamo più usare contro di esso gli argomenti – a cui ci eravamo tanto abituati e quasi affezionati – che tanto abbiamo adoperato contro il potere clerico-fascista, contro il potere repressivo.

Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo. Il nuovo potere non ha più nessun interesse, o necessità, a mascherare con Religioni, Ideali e cose del genere, ciò che Marx aveva smascherato.

Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere.

Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria.

Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo (come dice uno di quegli intellettuali che più fanno piovere sul bagnato, guardando con sussiego, commiserazione e spregio dal centro della «storia» i disgraziati come me che vagolano disperati nella vita).

E infine vorrei dire che se dalla maggioranza silenziosa dovesse rinascere una forma di fascismo arcaico, esso potrebbe rinascere solo dalla scandalosa scelta che tale maggioranza silenziosa farebbe (e in realtà già fa) tra la sacralità della vita e i sentimenti, da una parte, e, dall’altra, il patrimonio e la proprietà privata: in favore di questo secondo corno del dilemma. Al contrario di Calvino, io dunque penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore.

Pierpaolo Pasolini sul Corriere della sera, 10 marzo 1975

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