La Crusca boccia schwa, asterisco e altre corbellerie linguistiche

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L’Accademia della Crusca ha risposto a diversi quesiti linguistici su temi legati al genere. In particolare, i fautori della neolingua progressista ai quali – in tutta evidenza – sfuggono le questioni fondamentali dell’essere umano, chiedono:

  1. di introdurre equivalenti femminili di parole maschili
  2. di far ricorso al neutro
  3. di non usare il maschile plurale sovraesteso
  4. di introdurre asterisco, schwa o altri simboli

In sostanza, di bandire e imporre forme linguistiche come nei regimi totalitari

L’Accademia della Crusca ha risposto con una rigorosa lezione di linguistica, non tirandosi indietro nel far notare contraddizioni, illogicità e forzature presenti in queste istanze.

Il genere grammaticale è diverso dal genere naturale

Questo è il primo concetto che l’Accademia della Crusca ci tiene a chiarire, ricordando anche l’esistenza di numerosi nomi femminili usati per indicare prevalentemente figure maschili che – seguendo la logica progressista – dovrebbero sentirsi discriminate.

«Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. […]

È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guidasentinella, guardia, maestranza e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne.

Vero è che nel parlato spostamenti di genere nell’àmbito dei nomi in rapporto al sesso del referente ci sono stati: da modello si è avuto modella; si parla di un tipo ‘un tale’ ma anche di una tipa; accanto a membro si sta diffondendo membra; dall’altra parte, dal femminile figura deriva il maschile figuro (ma con una connotazione negativa).

Abbiamo poi i cosiddetti nomi “di genere comune”, che non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantantepreside, custodeconsorteconiuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi).

Passando al mondo animale, distinguiamo, è vero, il montone o ariete e la pecora (ma il plurale le pecore si riferisce spesso al gregge e comprende quindi anche i montoni), il gatto e la gatta, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, ma nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc., nomi che la tradizione grammaticale indica come “epiceni”; lasciamo da parte l’esistenza di formazioni occasionali come il tartarugo e il ricorso non alla flessione, ma alla tecnica analitica, come in la tartaruga maschio, che è sicuramente possibile, ma marginale all’interno del sistema).

Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sediasiepecrisi e radio e il maschile di armadiofioreproblema brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno.»

Il neutro non esiste

«Chi, tra coloro che ci hanno scritto, propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani (accade con alcuni diminutivi di nomi propri) e neppure agli dei: venus-eris ‘bellezza, fascino’ (da cui venustas), che era neutro come genus, –eris, diventò femminile come nome proprio di Venere, la dea della bellezza.»

Il maschile plurale come genere grammaticale non marcato

Qui l’Accademia della Crusca spiega che il plurale maschile, non essendo marcato, ha la funzione di includere tutti, difatti così lo abbiamo sempre inteso; mentre il plurale femminile, essendo marcato, include solo il sesso femminile.

«Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”.

Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi”.

Se in passato poteva capitare (oggi mi risulta che avvenga più di rado) che a un alunno indisciplinato si richiedesse di tornare a scuola il giorno dopo “accompagnato da uno dei genitori”, poteva essere sia il papà sia la mamma a farlo (e lo stesso valeva nel caso della dicitura al singolare, “da un genitore”, sebbene questo termine abbia anche il femminile genitrice, di uso peraltro assai più raro rispetto al maschile).»

Lingue naturali, processi di standardizzazione e dirigismo linguistico

Qui la Crusca precisa che la lingua evolve in base all’uso comune e non può essere “corretta” dall’alto come hanno provato a fare in passato i regimi totalitari.

«C’è poi un’altra questione di carattere generale che va tenuta presente: ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: è vero che molte lingue hanno subìto un processo di standardizzazione per cui, tra forme coesistenti in un certo arco temporale, alcune sono state selezionate, considerate corrette e destinate allo scritto e all’uso formale e altre censurate e giudicate erronee, o ammesse solo nel parlato o in registri informali e colloquiali; ma in questo processo la scelta avviene sempre nell’àmbito delle possibilità offerte dal sistema.

Soltanto nel caso della scrittura (che infatti non si apprende naturalmente, ma va insegnata) è possibile imporre norme ortografiche che si discostino dalla pronuncia reale: per questo la stampa e la scuola hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nella costituzione della norma standard scritta.

Non c’è dunque da meravigliarsi se alcune proposte di soluzione del problema della distinzione di genere abbiano riguardato, almeno in prima istanza, la grafia, più suscettibile di cambiamenti. Ma ormai da tempo l’ortografia italiana è da considerarsi stabilizzata, il rapporto tra grafia e pronuncia non presenta particolari difficoltà (basta prendere a confronto l’inglese e il francese) e i dubbi si concentrano quasi esclusivamente sull’uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi, ecc.).

Questo non esclude che, almeno in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato.

In ogni caso, la storia ci ha offerto non di rado, anche di recente (in altri Paesi), esempi di riforme ortografiche dovute a interventi dell’autorità pubblica. Ogni tanto, specie nei regimi totalitari, la politica è intervenuta anche ad altri livelli della lingua, ma quasi mai è andata a violare il sistema.

E poi il “dirigismo linguistico” (di cui, secondo alcuni, anche il “politicamente corretto” raccomandato alla pubblica amministrazione costituirebbe una manifestazione) assai di rado ha avuto effetti duraturi. Al riguardo possiamo citare un caso che entra, se pure lateralmente, proprio nella questione che stiamo trattando: quello degli allocutivi.»

Gli allocutivi (tu, voi, lei) e la tematica del genere

In questo interessante paragrafo c’è un ulteriore esempio di come il genere grammaticale non corrisponde a quello naturale: l’uso del femminile “lei di cortesia” anche per i maschi. Non è difficile immaginare che, se fosse stato al contrario, i progressisti avrebbero urlato al patriarcato.

Ecco cosa dice la Crusca:

«Il latino conosceva un unico pronome per rivolgersi a un singolo destinatario, maschio o femmina che fosse: tu (al nominativo e al vocativo; tui, al genitivo; tibi, al dativo; te, all’accusativo e ablativo) e l’uso si è conservato, praticamente senza soluzione di continuità, a Roma, nel Lazio e lungo la corrispondente dorsale appenninica.

In età imperiale cominciò a diffondersi il vos come forma di rispetto, da cui il voi dell’italiano antico, vivo tuttora in area meridionale. In età rinascimentale, sull’onda della diffusione (per influsso dello spagnolo) di titoli come vostra eccellenzavostra signoriavostra maestà, ci fu un altro cambiamento e si iniziò a usare, come forma di cortesia, anche il lei (ella, per la verità, almeno all’inizio, come soggetto e nell’uso allocutivo), che prima affiancò (a un livello di maggiore formalità) il voi e poi, in età contemporanea, ha finito col sostituirlo.

Il fascismo cercò invano di bandire l’uso del lei (considerato uno “stranierismo” proprio della “borghesia”) e di imporre l'”autoctono” voi. Col crollo del regime, il voi è restato, come si è detto, solo nell’uso meridionale (dove il lei aveva avuto minore diffusione) ed è piuttosto l’espansione del tu generalizzato a contrastare il lei di cortesia, che peraltro resiste benissimo in situazioni anche solo mediamente formali.

Proprio il lei di cortesia ci documenta un’altra mancata corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. Lei è un pronome femminile, ma lo si dà anche a uomini (lei è un po’ pigro, signore! come lei è un po’ pigra, signora!); non solo, ma quando si usano le corrispondenti forme atone la e le l’accordo al femminile investe spesso anche il participio o l’aggettivo.

Se è normale, rivolgendosi a un docente di sesso maschile, dire professore, oggi vedo che è molto occupatosi dice però comunemente professore, l’ho vista ieri (e non l’ho visto ierientrare in biblioteca. Insomma, anche l’allocutivo di cortesia dello standard è un esempio di come il maschile e il femminile grammaticali non corrispondano sempre, neppure in italiano, ai generi naturali.»

La lingua tra norma, sistema e scelte individuali

Qui la Crusca ricorda le basi: la lingua serve a farsi capire.

«Chi si rivolge all’Accademia della Crusca pensa alla lingua considerando la “norma” in senso prescrittivo (in molti quesiti ricorrono infatti parole come corretto e correttezza, propri della grammatica normativa e scolastica) oppure facendo riferimento agli usi istituzionali dell’italiano, non all’uso individuale di singoli o di gruppi ristretti.

Ma neppure in questo secondo caso le scelte sono completamente libere, perché chi parla o scrive deve comunque far riferimento a un sistema di regole condiviso, in modo da farsi capire e accettare da chi ascolta o legge.» […]

La mozione

Qui viene ricordato che sono le stesse donne che, molte volte, hanno preferito e preferiscono definire la loro professione con la versione maschile-inclusiva (sindaco, ministro, assessore). Una riflessione in merito può essere utile per riconoscere la futilità della questione.

«La norma dell’italiano contempla un’ampia gamma di possibilità nel caso della mozione, cioè del cambiamento di genere grammaticale di un nome in rapporto al sesso. È un tema che sulle pagine del sito della nostra Consulenza è stato spesso affrontato perché moltissime sono le domande che sono arrivate e che continuano ad arrivare a proposito dei femminili di professioni e cariche espresse al maschile dato che in passato erano riservate solo a uomini.

La scelta per il femminile, che l’Accademia ha più volte caldeggiato, non viene sempre accolta dalle stesse donne, tra cui non mancano quelle che preferiscono definirsi architettoavvocatosindacoministroassessoreprofessore ordinarioil e non la presidente, ecc.

D’altra parte, se storicamente è indubitabile che molti nomi femminili di questo tipo siano derivati da preesistenti nomi maschili (ciò vale pure per signora rispetto a signore), abbiamo anche casi di nomi maschili come divo nel mondo dello spettacolo, prostitutocasalingo, che sono documentati dopo i corrispondenti femminili, di cui vanno considerati derivati.»

Quale pronome per chi si considera gender fluid?

Qui la Crusca fa notare che la lingua italiana offre già delle alternative perfettamente grammaticali per evitare di rivolgersi con un pronome maschile o femminile ad una persona che si ritiene non binaria.

«Tornando al genere grammaticale, diverso è il caso di chi si considera gender fluid, cioè, per usare la definizione dello Zingarelli 2022 (che include questa locuzione aggettivale s.v. gender, molto ampliata rispetto allo Zingarelli 2021), “di persona che rifiuta di identificarsi stabilmente con il genere maschile e femminile (comp. con fluid ‘mutevole’)”. Il problema che ci è stato sottoposto per queste persone riguarda prevalentemente il genere del pronome da utilizzare per riferirsi ad esse.

Ebbene, di fronte a domande come la seguente: “Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?”, la nostra risposta è questa: l’italiano – anche se non ha un pronome “neutro” – offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando.

L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro è certamente onerosa. In ogni caso, tanto il pronome io quanto l’allocutivo tu (e, come si è visto sopra, anche gli allocutivi di cortesia lei e voinon specificano nessun genere.

Analogamente, i pronomi di terza persona lui lei in funzione di soggetto possono essere omessi oppure sostituiti da nomi e cognomi, tanto più che oggi sono in uso accorciamenti ipocoristici ambigeneri come Fede (Federico o Federica), Vale (Valerio o Valeria), ecc., e che si tende a non premettere l’articolo femminile a cognomi che indicano donne (Bonino e non la Bonino).

Si potrebbe aggiungere che il clitico gli, maschile singolare nello standard, nel parlato non formale si usa anche al posto del femminile le e che l’opposizione è neutralizzata per combinazioni di clitici come glieloglielagliene; anche l’elisione, nel parlato più frequente che non nello scritto, ci consente spesso di eliminare la distinzione tra lo e la.

Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie. Certamente l’accordo del participio passato costituisce un problema; ma non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla.»

Il maschile non marcato è già inclusivo

Perché sbattersi tanto la testa se una forma inclusiva in senso assoluto già esiste? Il maschile non marcato non è sessista; al contrario, è inteso comunemente come quella forma che non esclude nessuno. Piuttosto sono proprio alcune soluzioni sempre più utilizzate, come il “ciao a tutte e a tutti”, a escludere le persone che si ritengono non binarie. In pratica: per cercare di risolvere un problema inesistente, si crea un problema reale.

Ecco cosa dice la Crusca:

«Diverso è il caso dei plurali: qui, come si è detto all’inizio, il maschile non marcato, proprio della grammatica italiana, potrebbe risolvere tutti i problemi, comprendendo anche le persone che si ritengono non binarie.

A nostro parere, mentre è giusto che, per esempio, nei bandi di concorso, non compaia, al singolare, “il candidato” ma si scriva “il candidato o la candidata”, oppure “la candidata e il candidato” (per abbreviare si ricorre spesso anche alla barra, che tuttavia non raccomanderemmo: “il/la candidato/a”), il plurale “i candidati” è accettabile perché, sul piano della languenon esclude affatto le donne.

Niente tuttavia impedisce di optare anche al plurale per “i candidati e le candidate” o viceversa (oppure, anche in questo caso, “i/le candidati/e”); vero è che da queste formulazioni potrebbero sentirsi escluse le persone che si ritengono non binarie.

Aggiungiamo, rispondendo così ad alcuni specifici quesiti, che la scelta del plurale maschile nello standard non dipende dalla numerosità dei maschi rispetto alle femmine all’interno di un gruppo: basta una sola presenza maschile a determinarlo, ma non si tratterebbe di una scelta sessista, bensì dell’opzione per una forma “non marcata” sul piano del genere grammaticale. […]

Da richiamare è anche il fatto che, soprattutto nel parlato, l’accordo del participio o dell’aggettivo può riferirsi al genere grammaticale del nome ad essi più vicino: quindi “le mamme e i papà sono pregati di aspettare i figli fuori” (e non “sono pregate”), ma “i papà e le mamme sono pregati”, ma anche “sono pregate”.»

Qui si può aggiungere che anche espressioni al maschile singolare come “il candidato” o “il vigile urbano” non escludono nessuno. Se così le abbiamo sempre intese, allora il significato è proprio quello ed è inclusivo in assoluto.

Così come il maschile plurale non marcato si può usare anche per un gruppo di sole femmine, se non è rilevante specificare il loro sesso. Ad esempio posso chiedere a mia moglie di controllare “i bambini” in giardino, anche se abbiamo solo figlie femmine.

La presenza del femminile plurale

La Crusca si dichiara non contraria, comunque, all’uso di espressioni come “a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori”, soprattutto se usate in contesti in cui per qualche ragione si vuole rimarcare in modo particolare la presenza delle donne.

Anche la Chiesa, nella liturgia, utilizza l’espressione “fratelli e sorelle”, anche se la parola “fratelli” mantiene la sua funzione assolutamente inclusiva se diciamo che “siamo tutti fratelli”.

Così come è inclusivo il sostantivo femminile “persona”, al plurale “persone”; oltre che i sostantivi femminili “umanità” e “famiglia”. Esempi che potrebbero scongiurare nuove futili polemiche sulla questione della parola “uomo” usata per l’intero genere umano, come nel libro L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. Anche perché la parola uomo deriva dal latino hŏmō, legato a hŭmus ‘terra’, avente senso, quindi, di “terrestre”.

La Crusca qui fa anche notare che il plurale femminile viene anche usato in contesti in cui la presenza femminile è prevalente. Ad esempio si usa l’espressione “le nostre maestre” o “le nostre educatrici” anche se – seppur in una stretta minoranza – sono presenti anche maestri ed educatori maschi. Tali espressioni si usano nonostante il femminile (al contrario del maschile) sia marcato, perché segue un certo principio di maggioranza. Ciò dovrebbe aiutare a comprendere che se questo non è un problema, men che meno lo è per il plurale maschile non marcato…

«Il linguaggio influenza il pensiero!», ma in questo caso non c’entra nulla

Una delle argomentazioni a sostegno delle istanze che vogliono deturpare la nostra lingua è che il linguaggio influenza il pensiero.

Certo, se vado al mercato e vedo in vendita dei peperoncini piccanti che vengono chiamati “le bombe”, questa parola influenzerà il mio pensiero portandomi a pensare che sono davvero molto piccanti! Questo perché la parola “bomba” mi fa pensare ad un’esplosione, al fuoco che sentirò in bocca quando assaggerò quei peperoncini.

Ma questo non c’entra nulla con i discorsi fatti fino ad ora, perché non è il linguaggio in sé ad influenzare il pensiero, bensì la sua interpretazione, il suo significato.

Nel caso del maschile non marcato, se una persona ci chiede se abbiamo figli, intendiamo perfettamente che non ci sta chiedendo se abbiamo figli maschi, ma se li abbiamo in generale, a prescindere dal sesso che non è assolutamente rilevante in quella domanda.

Il fatto che venga usato il maschile plurale non marcato non influenza assolutamente il mio pensiero circa la combinazione dei cromosomi sessuali dei miei figli. Così come il fatto che “maestranza” e “guardia” sono nomi femminili, non mi porta assolutamente a pensare che si stiano riferendo a una donna; al contrario, penserò subito a un uomo dato che le maestranze sui cantieri e le guardie per strada sono quasi totalmente uomini.

La sgradevole e inutile forzatura dell’asterisco

Qui la Crusca lo dice chiaro e tondo: parliamo di una delle inopportune e inutili forzature al sistema linguistico. L’asterisco non ha una corrispondenza nella lingua parlata, la maggior parte delle persone lo ritengono una sgradevole storpiatura della lingua italiana; pertanto è impensabile che possa essere usato soprattutto in un documento ufficiale.

«L’accostamento del femminile al maschile finisce spesso con l’allungare e appesantire il testo. Forse anche per evitare questo, ormai da vari anni, soprattutto da quando si è diffusa la scrittura al computer, ha gradualmente preso piede, in particolari àmbiti (tra cui la posta elettronica), l’uso dell’asterisco, che è andato progressivamente a sostituire la barra (già citata per candidati/e), il cui uso sembra ormai confinato ai testi burocratici. […]

Nell’àmbito di cui ci stiamo occupando l’asterisco, in fine di parola, sostituisce spesso la terminazione di nomi e aggettivi per “neutralizzare” (o meglio “opacizzare”) il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* collegh* e, particolarmente frequente, car* tutt*.

L’asterisco negli ultimi anni ha conquistato anche i sostenitori del cosiddetto linguaggio gender neutral e non c’è dubbio che anche sotto questo aspetto possa avere una sua funzionalità. Tuttavia coloro che ci hanno scritto, pur se disponibili alle innovazioni, si dichiarano per lo più ostili all’asterisco: c’è chi parla di “insulto” alla nostra lingua, chi di “storpiatura”, chi lo ritiene “sgradevole”, chi addirittura “un’opzione terribile”. […]

L’asterisco non è invece utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono una lettura ad alta voce.

Resta, infatti, il problema dell’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio.»

Contraddizioni e illogicità dello schwa

Anche qui la Crusca parla chiaro e tondo: lo schwa è una proposta ancora meno praticabile di quella dell’asterisco, oltre a discriminare i dislessici incrementando le difficoltà nella lettura. Non risolverebbe la questione per tante parole come “sostenitore” che al femminile diventa “sostenitrice”. Non esiste il corrispondente maiuscolo e non esiste nel parlato, tanto che non viene usato nemmeno dai suoi sostenitori.

«In alternativa all’asterisco, specie con riferimento alle persone non binarie, è stato recentemente proposto di adottare lo schwa (o scevà), cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale (il termine, grammaticalmente maschile, è di origine ebraica).

Questa proposta, che sarebbe da preferire all’asterisco perché offrirebbe anche una soluzione sul piano della lingua parlata, ha già trovato vari sostenitori (sembra che l’abbiano adottata, almeno in parte, una casa editrice e un comune dell’Emilia-Romagna). A nostro parere, invece, si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le ulteriori difficoltà di lettura che creerebbe nei casi di dislessia.

Intanto, sul piano grafico va detto che mentre l’asterisco ha una pur limitata tradizione all’interno della scrittura, il segno per rappresentare lo schwa (la e rovesciata: ə, in corsivo ə, forse non di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano) è proprio, come si è detto, dell’IPA, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico.

Non a caso, a parte linguisti e dialettologi, coloro che scrivono in uno dei dialetti italiani che hanno lo schwa nell’inventario dei loro foni lo rendono spesso con e (talvolta con ë) o, impropriamente, con l’apostrofo. Se guardiamo al napoletano, che nella sua lunga tradizione di scrittura per le vocali atone finali si è allineato all’italiano, vediamo che oggi nelle scritte murali in dialetto della città la vocale atona finale viene sistematicamente omessa.

L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə, di cui pure ci è stato segnalato l’uso anche al singolare.

C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta. C’è chi usa lo stesso segno, ingrandito, ma la differenza tra maiuscole e minuscole non è di corpo, ma di carattere e quindi accostare una E maiuscola all’inizio o nel corpo di una parola tutta scritta in maiuscolo a una ə alla fine della stessa non mi pare produca un bell’effetto.

In alternativa, si potrebbe procedere per analogia e “rovesciare” la E, ma si tratterebbe di un ulteriore artificio, privo di riscontri – se non nella logica matematica, in cui il segno Ǝ significa ‘esiste’ (cosa che peraltro creerebbe, come nel caso dell’asterisco, un’altra “collisione” sul piano del significato) – e, presumibilmente, tutt’altro che chiaro per i lettori.

Quanto al parlato, non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo o per accordare la preferenza a tuttə rispetto al tuttu che è stato sopra citato.

Anche il riferimento ai sistemi dialettali ci sembra fallace perché nei dialetti spesso la presenza dello schwa limita, ma non esclude affatto la distinzione di genere grammaticale, che viene affidata alla vocale tonica, come risulta da coppie come, in napoletano, buό (maschile: ‘buono’ ma anche ‘buoni’) e bònə (femminile: ‘buona’ o ‘buone’), russə (‘rosso’ o ‘rossi’) e rόssə (‘rossa’ o ‘rosse’).

Lo schwa opacizza invece spesso la differenza di numero, tanto che tra chi ne sostiene l’uso c’è stato chi ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere a un altro simbolo IPA, ɜ, come “schwa plurale” (altra scelta a nostro avviso discutibile, anche per la possibile confusione con la cifra 3).»

Conclusioni dell’Accademia della Crusca

Nelle conclusioni la Crusca cita Nanni Moretti nel film in cui dice “le parole sono importanti”. Fa sorridere che abbiano fatto riferimento proprio ad una scena in cui un uomo (di sinistra e comunista) schiaffeggia ripetutamente una donna solo perché ha usato parole a lui non gradite. E il messaggio che passa allo spettatore è che ha fatto bene, che “quanno ce vo, ce vo!”.

Fa sorridere che questa scena sia stata richiamata in un discorso in cui si ricorda anche che è importante includere le donne nel linguaggio. Anzi, quanto è “estremamente” importante, dato che incluse già lo sono.

Corto circuiti di sinistra.

Tuttavia, nelle sue conclusioni, la Crusca lo dice chiaramente: state sbattendo la testa contro il muro alla ricerca di soluzioni contradditorie e impraticabili, quando la soluzione è già in casa, è già nella nostra lingua ed è il maschile non marcato e, perciò, già inclusivo come sempre lo abbiamo inteso.

Ora un’ideologia vuole cambiare questo significato, così da creare il problema per poi venderti la soluzione. Ma questo nel marketing è il terribile fenomeno dell’induzione del bisogno.

Tornando alle conclusioni della Crusca:

«non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale.
Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico, potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico.»

Fonte: Un asterisco sul genere su Accademia della Crusca

Conclusioni di Canoscenza.it

Confesso che questo articolo non avrei dovuto nemmeno pubblicarlo perché le questioni poste in essere sono futili e, di conseguenza, è futile anche la risposta – seppur illuminante – della Crusca.

Ma, dato che l’ho pubblicato, devo dare ad esso un senso più profondo. Cosa c’è davvero in gioco nelle istanze progressiste di questo tipo? Cosa vogliono davvero i loro fautori, se sono arrivati a montare polemiche sul nulla?

Quello di cui sono certo è che vogliono qualcuno che voglia loro bene davvero. Perché se una donna o un uomo vivessero questo “bene”, non potrebbero mai pensare, spinti da un’ideologia propagandata dai mass media, che l’uso dell’espressione linguistica “ciao a tutti” sia una discriminazione. E vale anche per un trans.

Il mondo è arrivato ad occuparsi di questioni inutili, mettendo in piedi polemiche, scontri e incitazioni all’odio, perché non sa più cosa sia e come raggiungere il bene.

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