Dall’Io-Tu al “noi tutti”: la famiglia è la cellula della società – E.Aceti

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In questo stralcio del libro “I linguaggi del corpo” dello psicologo Ezio Aceti, troviamo conferma di come la scoperta dell’amore nell’Io-Tu sia qualcosa di contagioso, che non riguarda solo la coppia, ma la comunità intera con cui entra in contatto, perché potenzialmente generatrice uno sguardo, un modo nuovo di guardare ogni persona in quanto tale, come specchio del proprio io già scoperto nella sua interezza.

Dopo di lei! (E. Levinas)

Per essere realisti, come vuole l’Io-realtà, e come il corpo nella sua concretezza chiede che si sia, la presa di coscienza delle persone che siamo tutti si realizza in tre operazioni.

Primo: si scopre l’Io-persona al centro dei «me», individuati volta per volta dalle stimolazioni ambientali (e si riconosce che non è un optional il dialogo interiore io-me).

Secondo: al centro dell’io trovo il tu. Questa è la sorpresa assoluta in tutto il cosmo. L’amore come supremo desiderio del mio spirito. L’amore che muove questo mio “sacro” io (l’amor proprio) a dire: «questo tuo sacro io» (l’amore tornato vero). Come fenomeno c’è l’impulso a dire «dopo di te» (come spiega E. Levinas ragionando sull’uso di dire: «dopo di lei!»). Quanto al proprio io, c’è la piena coscienza che anche per me «è più bello dare che ricevere». Viene da dire che il vero amore è sempre “coniugale” nel senso latino del «cum jugo», il giogo che fa uno di due buoi, il giogo che dice il lavoro da fare nel campo, cioè il terzo vertice della nostra identità triverticale.

Terzo: il doppio accento sulla persona, vissuto nel «noi due», dispone fortemente a vivere il «noi tutti» del gruppo di persone che fa l’intera umanità. Questo perché così personalizzato, il «noi due» non degenera in chiusura dualistica, essendo intrinsecamente universale il motivo della «persona», per quanto ascoltata nella variazione unica e irripetibile della singola persona, che sei tu e sono io. La buona abitudine, acquisita in famiglia, a mettere l’accento sulla persona, fa sì che si veda subito la persona in chiunque capiti di incontrare, comunque sia “diverso” in superficie. E qui si capisce come la famiglia sia la cellula della società.

E si capisce in tutto il suo significato quel dettato universale che è «ama il prossimo tuo come te stesso» (ci riesco se comincio con il pensare che anch’essi hanno dentro un io vertiginoso come è il mio io per me stesso).

Logico che tutto ciò porti a “dare del tu” a tutti e non nel senso superficiale di una cordialità di carattere, ma nel senso del prendere sul serio la suprema divinità della tua persona al pari della mia. Sul serio come con me faccio sul serio.

E ciascuno dei tutti, non preso nella massa, non uno dei tanti fatti in serie, ma ciascuno come uno fatto a mano (dalla mano che fa la persona unica e irripetibile. Ciascuna. «Un capolavoro», come dice J.P. Sartre).

Allora viene da consigliare di non parlare più di altruismo, non è più logica, se siamo «noi», tutti noi, avrebbe senso parlare di altruismo, suona male, ma fa tutta la differenza tra massa anonima e gruppo di amici con cui ci si dà del tu, con l’uguaglianza della fraternità, se si dà libertà all’amore come supremo desiderio del nostro spirito.

Ed è sconvolgente constatare come la presenza di questa dimensione nella singola persona si rifletta anche all’interno delle persone, come una realtà frutto dell’amore. Proprio come diceva Buber a proposito del rapporto tra l’«io» e il «tu», affermando che fra i due si costruisce una realtà che autotrascende ed è “altro” dai due.

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