Caro Pannella, la tua è «obbedienza» al Potere – Pasolini

Pubblicare sul Corriere della sera il 18 Luglio 1975 con il titolo "Pannella e il dissenso"

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La grande rivoluzione di destra

[…] La democrazia cristiana è un nulla ideologico mafioso: perduto il riferimento alla Chiesa, essa, come maleodorante cera, può modellare se stessa secondo le forme necessitate da un più diretto riferimento al Potere Economico reale, cioè il nuovo modo di produzione (determinato dall’enorme quantità e dal superfluo) e la sua implicita ideologia edonistica (che è esattamente il contrario della religione).

Con cinismo arcaico di cattolici arcaici, i potenti democristiani accettano e assimilano, imperturbabili, e ormai consapevoli, il cinismo della nuova rivoluzione capitalistica (la prima vera grande rivoluzione di destra): e ciò li rende perfettamente nuovi e moderni, i più nuovi e moderni di tutti.

Tale rivoluzione capitalistica, dal punto di vista antropologico – cioè per quanto riguarda la fondazione di una nuova “cultura” – pretende degli uomini privi di legami col passato (risparmio e moralismo): pretende che tali uomini vivano – dal punto di vista della qualità della vita, del comportamento e dei valori – in uno stato, come dire, di imponderabilità: cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche.

Naturalmente – attraverso una di quelle contraddizioni curiose e scandalizzanti che fanno in realtà la storia – è appunto questa riduzione dell’uomo a automa – spesso sgradevole e ridicolo a causa della perdita sostanziale della propria dignità (diciamo: della dignità che bene o male tradizionalmente aveva) – è appunto questa riduzione degradante, ripeto, che comporta l’esigenza di un avanzamento nel senso della demistificazione, della democratizzazione e addirittura del progresso. Ma l’ho già ripetuto mille volte; si tratta di una demistificazione, di una democratizzazione, di un progresso puramente enfatici. Nomi, non cose. Il che significa cose che non hanno ancora un nome.

I potenti democristiani e tutti gli altri potenti si fanno belli di questa demistificazione, di questa democratizzazione, di questo progresso in atto; che “accompagna” uno sviluppo in realtà mostruoso e distruttore.

Anche i comunisti devono credere – o fingere di credere fino a credere veramente, con ingiustificato ottimismo – nell’enfasi della demistificazione, della democratizzazione e del progresso, che accompagnano l’oggettivo miglioramento del tenore di vita dei lavoratori. È per questo che dicevo che la loro responsabilità è immensamente aumentata: l’attesa di coloro che hanno votato per la prima volta il PCI, determinandone la grande vittoria, è prima di tutto pratica ed economica («Comunisti, aiutateci voi a portare un po’ d’ordine e di moralità nello sviluppo»), ma è anche un’attesa, come dire antropologica, del resto inconsapevole («Comunisti, aiutateci voi a sapere che uomini siamo»): questa seconda attesa non potrà non costringere i comunisti ad osservare criticamente, con la lucidità non diplomatica dell’analisi, ciò che sono esistenzialmente gli uomini: e in che misura il loro modo di essere sia stato determinato da quella “prima, vera, grande rivoluzione di destra” in cui consiste il nuovo modo di produzione.

Come opporsi a questo nuovo modo di produzione? Che atteggiamento assumere nei confronti delle industrie terziari e dei beni superflui?

Intanto però ciò che è stato è stato, ciò che è è: e irreversibilmente. Bisogna in qualche modo adattarsi a quella che si chiama realtà per poter fare i conti con essa. Tale realtà ha tratti facilmente individuabili, perché la loro violenza è quella di una mortuaria vitalità che dilaga su tutto:

  • perdita di antichi valori (comunque li si vogliano giudicare);
  • borghesizzazione totale e totalizzante;
  • correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di una ostentata e enfatica ansia democratica;
  • correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata e enfatica esigenza di tolleranza.

L’«obbedienza» dei «disobbedienti»

Ora, caro Pannella, c’è gente come noi che continua ad agire sotto la spinta “inerte” di necessità civili di cui si è avuto coscienza una decina di anni fa: che lotta cioè per una sincera ansia democratica e in nome di una reale tolleranza. Una decina d’anni fa però il significato della parola “obbedienza” e quello della parola “disobbedienza” erano profondamente diversi. La parola “obbedienza” indicava ancora quell’orrendo sentimento che essa era stata in secoli di controriforma, di clericalismo, di moralismo piccolo borghese, di fascismo; mentre la parola “disobbedienza” indicava ancora quel meraviglioso sentimento che spingeva a ribellarsi a tutto questo.

Tutto questo, peraltro, contrariamente a ogni logica che noi chiamiamo storica, è stato spazzato via non dalla ribellione dei «disobbedienti» ma da una nuova volontà degli «obbedienti» (insisto: la prima vera grande rivoluzione di destra). Controriforma, clericalismo, moralismo piccolo borghese, fascismo, sono “avanzi” che danno prima di tutto noia al nuovo potere.

È contro questi “avanzi” che noi lottiamo? È alle norme di questi avanzi che noi “disobbediamo”? Bada che la caratteristica più intransigente della “prima vera grande rivoluzione di destra” consiste nella distruttività: la sua prima esigenza è quella di far piazza pulita di un universo “morale” che le impedisce di espandersi.

Osserviamo per esempio la criminalità italiana. Non è un’analisi ai margini. Non si tratta di un mondo particolaristico, da relegare alla cronaca. La criminalità italiana è un fenomeno imponente e primario della nuova condizione di vita italiana.

Non solo i criminali veri e propri sono una “massa”: ma ciò che più conta, la massa giovanile italiana tout court (eccettuate piccole élites, e in genere i giovani iscritti al PCI) è costituita ormai da criminaloidi: ossia da quelle centinaia di migliaia o milioni di giovani che patiscono la perdita dei valori di una “cultura” e non hanno ancora trovato intorno a sé i valori di una “nuova cultura” (come noi ce la configuriamo): oppure accettano, con ostentazione e violenza, da una parte i valori della “cultura del consumo” (che noi rifiutiamo), dall’altra i valori di un progressismo verbalistico.

Ebbene, per tutti questi giovani vale la figura o “modello” del «disobbediente». Non c’è nessuno di essi che si consideri «obbediente». In realtà, semanticamente, le parole hanno rovesciato il loro senso scambiandoselo: in quanto consenziente all’ideologia “distruttrice” del nuovo modo di produzione, chi si crede «disobbediente» (e come tale si esibisce) è in realtà “obbediente”; mentre chi dissente dalla suddetta ideologia distruttrice – e, in quanto crede nei valori che il nuovo capitalismo vuole distruggere, è «obbediente» – è dunque in realtà «disobbediente».

I giovani del ’68 hanno già fornito un modello di “disobbedienza” (mancanza di rispetto, irrisione, disprezzo della pietà, teppismo ideologico “somatizzato”) che ora vale soltanto in realtà per i criminali comuni, che sono una massa, e per le masse di quei criminali potenziali che sono sempre coloro che, come dicevo, hanno subito da poco una perdita di valori (cfr. le truppe proletarie delle SS tedesche).

La «distruzione» è in definitiva il segno dominante di questo modello di falsa «disobbedienza» in cui consiste ormai la vecchia «obbedienza».

È per questo che ti scrivo. Tu devi aggiornarti semanticamente sul linguaggio che usi. Non devi più chiamare la tua «disobbedienza» ma «obbedienza», o meglio, se vuoi, «nuova obbedienza» e di tale «nuova obbedienza» offrirti come modello. Non devi…Non devi? Scusami, attribuisci a questo dovere e non dovere un senso solo passionale e solidale… E per farmi capire meglio, ripiegherò su due “esempi” attuali.

Un vero «disobbediente»: il poliziotto Rizzo

In queste ultime settimane la “massa criminaloide” italiana ha avuto due “casi” da prendere – inconsapevolmente e sguaiatamente come usa – in considerazione.

Il primo è un «caso di disobbedienza»: quello del sergente Sotgiu (protesta per le condizioni di vita dei sottufficiali). Il secondo è un «caso di obbedienza»: quello del poliziotto Rizzo (suicidio a causa della fuga del detenuto a lui affidato, e a cui egli aveva convesso la sua fiducia).

Il primo caso ha goduto della massima popolarità: è stato «riconosciuto» da tutti, è stato «annesso» da tutti, è stato «approvato» da tutti. Esercito compreso. Si tratta dunque di «disobbedienza»? A me il sergente Sotgiu è molto simpatico: gli faccio qui una dichiarazione di simpatia e (anche se non ne ha affatto bisogno) di solidarietà.

Ma ho da obiettare una cosa: egli ha fondato la sua protesta sull’affermazione che anche i «sergenti dell’aeronautica», e, suppongo, i sergenti e i militari di carriera in genere, sono «esseri umani come gli altri»: ma qui c’è una petizione di principio. I cosiddetti «altri» sono davvero «esseri umani»? Il mutamento antropologico in atto non ne sta facendo per caso dei «sottouomini»?

Ancor più «umano» di Sotgiu era indubbiamente la guardia di pubblica sicurezza Rizzo. Ma il suo sentimento del dovere, la sua fiducia negli altri «come esseri umani», insomma, la sua «obbedienza», non ha avuto alcun consenso: non si è posta in alcun modo come un valore esemplare, o meglio come la «forma universale» di un valore.

L’«obbedienza» non gode alcuna popolarità, neanche come idea: questo è chiaro: Ma se c’è qualcuno, che ha disobbedito, in effetti, a tutto ciò che è oggi in realtà così come il potere la vuole, è proprio il poliziotto Rizzo.  Egli si è opposto a tale realtà in nome di tutto ciò che da tale realtà è stata brutalmente distrutto. Perché è la «distruzione», ripeto, il segno dominante del nuovo potere.

In conclusione: l’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra «macerie di valori»: «valori» umanistici e, quel che più importa popolari.

Come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani – a causa non solo della distruzione che hanno operato ma soprattutto a causa dell’abiezione dei fini e della stupida inconsapevolezza con cui hanno operato – sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto. Che certo – fortunatamente e sfortunatamente – non ci sarà: tuttavia è chiaro che ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una “obbedienza a leggi future e migliori” – simile a quella che, dopo Piazzale Loreto, è nata dalla Resistenza – e la conseguente volontà di «ricostruzione».

Fondare la possibilità di una simile “obbedienza” e di una simile “volontà di ricostruzione” è il vero nuovo grande ruolo storico del PCI. Ma anche tuo: anche dei radicali, anche di ogni singolo intellettuale, di ogni uomo solo e mite.

Pasolini sul Corriere della sera con il titolo “Pannella e il dissenso”, 18 Luglio 1975

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