Pasolini e Calvino: confronti e scontri appassionati

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Dopo millenni in cui la storia è andata avanti gradualmente, ma lasciando intatte certe questioni fondamentali, un certo modo di vivere, di pensare, improvvisamente negli anni ’60 avviene – dice Pasolini – un genocidio. Si distrugge qualcosa che durava da millenni.

Pasolini: piango un mondo che non esiste più

Improvvisamente tutti gli italiani diventarono grandi consumatori e la vita improvvisamente era cambiata. E Pasolini dice: dagli anni ’60, quelli che entusiasticamente sono stati definiti gli anni del boom economico, veramente è morto qualcosa e io piango un mondo che non esiste più. Rimpiango un mondo che non può più esserci. Rimpiango un mondo in cui si potevano vedere i paesi poveri, le nuvole, il frumento, il fumo, le biciclette, gli aeroplani che passavano come tuoni.

C’è una poesia che Pasolini ha scritto nel ’74 ed è in dialetto friulano. Lui immaginava: i bambini che guardano, la maniera di ridere che viene dal cuore e gli occhi che guardandosi intorno ardono di una curiosità senza vergogna, di rispetto senza paura. Io piango un mondo morto, ma non sono morto io. Ci eravamo sbagliati credendo che gli uomini non potessero cambiare così in così poco tempo, che i ragazzi crescessero in così poco tempo, così voltati ad un nuovo destino e tutto per mille lire di più nella saccoccia. Quelle mille lire di più che vi hanno fatto credere che cominciasse la sagra senza fine. Poveri fratelli. Erano i soldi del giorno della vostra fine.

Cosa rimpiangeva Pasolini? Perché è facile leggere questi versi come se fossero retorici, come se fossero un rimpianto dei bei tempi andati. Ma quando Pasolini rimpiangeva quegli occhi che si guardano intorno e ardono di curiosità senza vergogna, rimpiangeva molto di più che un’italietta.

Calvino sul Corriere della Sera scrisse: Pasolini rimpiange un’italietta, che non c’è più.
Pasolini sul Corriere della Sera replica subito: io non rimpiango un’italietta, io rimpiango un mondo che non c’è più. Rimpiango, cioè, non un’età dell’oro, rimpiango l’età del pane. Rimpiango un’età in cui, essendoci solo beni necessari, ognuno capiva facilmente com’era necessaria la vita. Il nostro tempo improvvisamente, essendo pieno di bene superflui, si accorge che è diventata superflua la vita. Quella che io sto rimpiangendo non è una condizione del mondo passato, ma una vita che era una vita.

Il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto

Cos’è successo nel frattempo? È successo che si è affermato un nuovo potere. Lui dice che è un Potere senza volto, perché – chiariamo subito – il potere di cui io parlo non è il potere della politica, non è il potere di chi ha i soldi, non è il potere delle banche, non è il potere della Chiesa, non è il potere degli eserciti, non è il potere dell’industria. Non sto parlando di questo potere. Sto parlando di un potere senza volto. E non so dirvi che cos’è e in che cosa consiste questo potere. So semplicemente che questo potere c’è. C’è perché si vede dai risultati. Questo potere ha un effetto che nessun potere ha mai avuto nella storia precedente. L’effetto si chiama omologazione. Questo potere è riuscito ad omologare gli italiani. Gli italiani sono tutti uguali. E non solo gli italiani. È riuscito ad omologare buona parte del mondo. Perché? Cosa fa questo Potere?

Dice nella lettera aperta di Pasolini a Calvino: l’acculturazione del centro consumistico ha distrutto le varie culture, perché il modello culturale offerto agli italiani – e a tutti gli uomini del globo, del resto – è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto.

Attenzione. Non è il potere come lo abbiamo conosciuto per millenni. C’è sempre stato il potere. Ma questo nuovo potere agisce non sul piano ideologico, ma sul piano del vissuto. Il Potere non condiziona il tuo modo di pensare. Lo lascia intatto. Ti lascia pensare quel che vuoi. Condiziona direttamente il tuo modo di vivere. Come fa? Ha degli strumenti a disposizione che non c’erano mai stati nel passato. Ha i mezzi di comunicazione di massa. E ha i coetanei, ha i tuoi amici che replicano da vicino infinitamente il meccanismo del potere.

Ma chi ha questo potere in mano? Non lo si può dire, è un potere inafferrabile, è un potere sfuggente. Non possiamo dire chi ha in mano il Potere. Potremmo dire che il Potere ci ha in mano tutti. Tutti replichiamo nel vissuto ciò che il Potere decide. Per esempio – dice Pasolini – tutte le famiglie italiane, ingenuamente, innocentemente, vedono Carosello, e dopo Carosello vanno tutti a nanna e non hanno capito che tra Carosello e Mussolini è più pericoloso Carosello.

Il fascismo ha fatto dei danni, ma il fascismo non ha scalfito l’anima degli italiani. Gli italiani, nell’anima, sono usciti dal fascismo com’erano prima del fascismo. La stessa mentalità, gli stessi valori. Sì, messi a dura prova, una prova che a volte è stata una prova di morte, ma l’anima degli italiani non è stata scalfita. Nessun Mussolini, nessuno Hitler, nessuno Stalin, nessun Nerone è mai entrato nelle stanze degli italiani. Sì, ti poteva proclamare le sue idee, ma la tua anima rimaneva la tua e dialetticamente potevi reagire.

L’omologazione

Ora invece il Potere decide tutto ciò che tu devi fare. Decide il tuo modo di vestire: pazienza, è fin troppo poco. Decide il tuo modo di ridere. Decide il tuo modo di uscire. Decidere il tuo modo di lavorare. Decide il tuo modo di festeggiare. Decide le tue feste di compleanno. È impressionante.

Qualche mese fa erano tutti improvvisamente esperti di motociclismo. La bidella, il barista, i ragazzini di 11 anni sapevano le traiettorie delle moto, tutti esperti. Poi improvvisamente, dal giorno dopo, tutti esperti di geopolitica internazionale. E poi tutti a parlare di quello che Mancini ha detto a Sarri. E mentre ne parlavamo, tutti a scannarci sulle unioni civili, per un mese e mezzo. Da qualche giorno tutto è sparito. Il Potere decide di cosa parli. Decide gli schieramenti. Ci mette in ordine: allora voi difenderete la famiglia tradizionale, voi la nuova famiglia. Scannatevi ideologicamente, ad un mio cenno so io qual è la caramellina buona per tutti. Tanto poi il sabato sera uscite tutti insieme. Tanto le feste di compleanno le fate allo stesso modo. Continuate a scannarvi ideologicamente. Siete superati. Il ruolo della religione e il ruolo del laicismo il Potere li ha già inglobati. E cosa succede?

Un giorno una mia amica violinista mi chiama e mi dice: «Ti volevo chiedere un consiglio per la mia festa di 18 anni». Siccome sono convinto che quando la festa è tua, tu devi fare veramente quello che ti piace, le ho detto: «Sei violinista, fossi in te farei una cosa che non fa nessuno, hai degli amici, fate un quartetto d’archi, una cosa meravigliosa». Questa mia amica, intelligente, bravissima, violinista, liceo classico, mi dice:
«Il violino mica sta bene con la danza Kuduro?».
«No, certo, non sta bene, infatti secondo me fai il quartetto d’archi e basta».
Lei: “No, va beh, non puoi fare una festa senza la danza kuduro”.

“Non puoi”! Non puoi…
E improvvisamente la violinista del liceo classico fece la festa identica a quella del più grande tamarro esistente. Improvvisamente il tamarro e la violinista furono uguali. Il Potere aveva deciso, perché tu il Potere per la prima volta lo vedi. Il Potere non ti scrive una lettera in cui di dice “Secondo me tu dovresti…”. Non te lo dice più, te lo fa vedere. Tu vedi Carosello e vedi il tipo di vita che conta, vedi chi sono quelli che contano.

Dopo millenni in cui la gente si era fatta il mazzo dalla mattina alla sera, senza avere il problema del fine settimana, della vacanza, dei regali, improvvisamente la gente ha cominciato a non mangiare, ma la crociera se la doveva fare.

Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali e lo fa alla grande perché ti lascia le tue idee intatte, ma nel frattempo ti ha mangiato il vissuto. Il Potere agisce offrendo un modello unico nel vissuto, nell’esistenziale e questo è il totalitarismo. L’Italia negli anni ’60 e ’70 non ha vissuto il boom economico, non ha vissuto la liberazione, ha vissuto – dice Pasolini – un nuovo fascismo.

I mezzi di comunicazione di massa non sono il luogo della democrazia. Sono il luogo della peggior repressione autoritaria che si sia mai vista sulla terra, perché se una cosa l’ha detta la televisione – o se l’ha detta internet – è dogma.

Un ragazzo che il sabato sera non esce, viene guardato da sua mamma come un povero psicolabile asociale che ha bisogno presto di farsi vedere da uno specialista. Un mio alunno due anni fa, alla sua festa, dopo che la mamma l’aveva cresciuto in parrocchia, alla sua festa la mamma gli ha detto: “Ho già parlato io con le ballerine brasiliane”, mentre lui era contrariato. Il Potere ha determinato il vissuto e la mamma parrocchiana, quando pensa alla festa del figlio, il massimo che gli può augurare sono le ballerine brasiliane e il figlio deve provare a far ragionare la madre.

Il fascista e l’antifascista sono uguali

Prova a non fare ciò che il Potere ha deciso. Quando parlo di omologazione – dice Pasolini – di tutti i giovani, per cui dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale, l’edonismo consumistico, un giovane fascista non può più essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. Cioè sono uguali. Il fascista e l’antifascista sono uguali. Pasolini si rivolge direttamente a Calvino e gli dice:

Caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero», (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli».

Ma:

  1. certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei gio­vani fascisti, non li riconosceresti;
  2. augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per indi­viduarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e prede­stinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ra­gioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il mar­chio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.

Una cosa che può cambiare la vita, una cosa che ti può far improvvisamente uscire dal vortice di quest’ideologia che ci prende tutti, che è l’ideologia del benessere, è quella di vedere un bambino. È un incontro. Stare con un bambino è un incontro continuo perché ti sorprende sempre. Rimette continuamente al centro la vita e fa fuori tutti i bisogni indotti dal Potere. Potrebbe bastare questo.

Si accende in quegli anni una grande polemica: quella sull’aborto. Nel 1974 ci sarà il referendum sul divorzio, nell’81 quello sull’aborto, su cui già c’è stata una legge nel 1978.

Calvino sull’aborto

Il 9 febbraio 1975 Calvino scrive così sul Corriere della Sera:

«Due cose soprattutto mi dispiacciono negli articoli degli avversari di una nuova legislazione per i casi di interruzione della gravidanza. La prima cosa che mi dispiace è un’idea della vita e della natura umana come qualcosa che ha un senso e un valore in sé.»

Cioè Calvino dice che la vita e la natura umana non hanno un senso e un valore in sé, indipendentemente da ciò che fanno gli altri per renderla veramente vita e veramente umana. Infatti dice:

«Si dimentica facilmente che non si è esseri umani per diritto naturale, ma lo si diventa. Bene o male perché altri esseri umani vogliono aiutarci a diventare tali.»

Cioè non si è esseri umani, lo si diventa – dice Calvino. Lo si diventa perché non basta l’evento biologico.

«Esso sarà umano solo in quanto attraverso il sorriso, la parola, le relazioni affettive, l’aiuto, l’apprendimento, il gioco, l’autorità, il lavoro d’altri esseri umani, entra a far parte di quella collettività fuori dalla quale l’individuo della specie homo sapiens non è altro che un animale sbigottito e frenetico, disadattato a qualsiasi ambiente.»

L’uomo non ha valore in sé, l’uomo ha valore perché glie lo dà la collettività. Per questo – conclude Calvino – «abortire è un comportamento corretto, perché chi non ha le possibilità morali e materiali non può sentirsi moralmente autorizzato a procreare.»

Negli stessi giorni, in una lettera scritta a Claudio Magris, lui dice ancora più esplicitamente: «mettere al mondo un figlio è un atto animalesco e criminoso se uno non ha le possibilità materiali e morali.» E se uno non ha queste possibilità «abortire è una decisione altamente morale».

Questo Calvino non solo lo scrive, sembra che lo abbia pensato già qualche anno prima.

La giornata di uno scrutatore

La giornata di uno scrutatore è un romanzo pubblicato da Calvino nel 1963, in cui il protagonista è appunto uno scrutatore, Amerigo, un comunista con idee progressiste, che si trova una domenica elettorale a fare lo scrutatore all’interno di un seggio molto particolare a Torino, perché si trova nell’istituto religioso Cottolengo, un istituto dove vengono curati i malati impossibili, quelli con deformazioni, con handicap inguaribili, tutti malati rifiutati addirittura spesso dalle famiglie e che vengono accolti nel Cottolengo.

Lui si ritrova a fare lo scrutatore lì dentro. Mentre sta lì dentro, riceve una telefonata ed è la sua compagna che si chiama Lia, che gli dice di essere incinta. C’era una sedia vicino al telefono. Amerigo si sedette, non diceva niente, Lia credeva si fosse interrotta la linea.

«Più di tutto si sentiva umiliato. Per lui, la procreazione, per prima cosa, era una sconfitta delle sue idee. Amerigo era un fautore accanito del birth-control, nonostante che il suo partito su quel punto si dimostrasse tra agnostico e contrario. Nulla lo scandalizzava quanto la faciloneria con cui i popoli si moltiplicano, e più affamati e arretrati sono meno la smettono di far figli, non tanto perché li vogliono, ma perché abituati a lasciar fare alla natura, alla disattenzione, all’abbandono. Insomma, era un’umiliazione.»

Lui, che sosteneva il controllo delle nascite, adesso doveva avere un bambino, no, non era possibile.

«Amerigo ebbe un soprassalto di polemica (“Ecco, per lei non è niente. Per lei è il corso della natura. Per lei non conta la logica della ragione, ma solo la logica della fisiologia!”) e insieme una specie di rassicuramento, perché Lia era davvero la Lia di sempre: – Taci… Devi sentirlo anche tu fino alla fine… e in fondo, cosa poteva essere cambiato in lei, ora che era incinta? Poca cosa: qualcosa che ancora non era e che quindi si poteva ricacciare nel nulla (da che punto in poi un essere è davvero un essere?), una potenzialità biologica, cieca (da che punto un essere umano è umano?), un qualcosa che solo una deliberata volontà di farlo essere umano poteva far entrare tra le presenze umane.»

Questo pezzo è stato pubblicato 12 anni prima dell’articolo, però come vedete è assolutamente in linea, è un pensiero lontano, un pensiero che ha radice profonde quello di Calvino. Finisce il capitolo 11 e si apre il 12 e qui succede quel semplice incontro, quell’esperienza diversa che può cambiare la vita.

«Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito di un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio con il cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale, ma in qualche modo pareva rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle e glie le passava attraverso il letto. Il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo sguardava masticare.»

Questa è la scena che lo scrutatore vede. Un padre che schiaccia le mandorle a suo figlio.

«Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. Il padre era un campagnolo, vestito anche lui a festa e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi, il figlio aveva l’occhio animale e disarmato. Mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco sulle loro seggiole ai due lati del letto in modo da guardarsi fisso in viso e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi o schivarsi da altre viste. O forse ancor di più, in qualche modo, affascinato.»

«La vecchia suora muoveva lì intorno gli occhi chiari e lieti, come si trovasse in un giardino pieno di salute, rispondeva alle lodi con quelle frasi che si sanno, improntate a modestia e ad amore per il prossimo, ma naturali, perché tutto doveva essere molto naturale per lei, non ci dovevano essere dubbi, dacché aveva scelto una volta per tutte di vivere per loro. Anche Amerigo avrebbe voluto dirle delle parole di ammirazione e simpatia».

Immedesimatevi con il suo stato d’animo. Lui ha appena parlato con la sua compagna. Si sente umiliato, rabbioso. Ora sta vedendo che lì ci sono delle suore, c’è un padre che schiaccia le mandorle, ci sono delle persone che accolgono della gente che non ha valore in sé, perché quel figlio lì non è in grado nemmeno di dire grazie a suo padre, è una potenzialità biologica, eppure lui è affascinato da questa carità incredibile, straripante, e anche lui avrebbe voluto dirle delle parole di ammirazione e simpatia, ma quel che gli veniva da dire era “un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui”.

Lui voleva dirle: ma come fai, come fate a trattarli così?
Voleva dire al padre: come mai ogni domenica vieni a schiacciare le mandorle a tuo figlio che neanche ti può dire grazie?
Voleva dire alla suora: come fai tu ad avere questi occhi lieti come se camminassi in un giardino di fiori?
E invece cosa gli veniva nella testa? Un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui.

Perché noi, come lo scrutatore, siamo pieni di idee, di discorsi, che ci impediscono di guardare le cose che abbiamo davanti che sono infinitamente più semplici e più profonde delle cose che pensiamo. Il discorso era che: bisognerebbe pensare ad un mondo in cui tutti possono essere solidali con gli altri, e non solo pochi che hanno la vocazione… ecc… chiacchiere.

«Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole.»

Detta da Calvino, che trovava sempre le parole. Questa è un’affermazione drammatica. Come se Calvino stesse dicendo: io posso trovare le parole per tutto, ma le cose che più mi stanno a cuore sono quelle per cui non trovo parole.

Dirà a un certo punto: cos’è la letteratura? La letteratura è un gioco combinatorio, sono solo parole combinate. La scuola ha preso solo questa frase di Calvino. Tutta la modalità con cui si concepisce la letteratura oggi è un po’ questa: come se la letteratura fosse un gioco combinatorio, tant’è che si fanno le analisi del testo. Noi possiamo scomporre un testo, fare l’autopsia di un testo, rimettere tutti gli ingredienti sul tavolo, vivisezionarlo perché la poesia è una combinazione di parole.

Ma subito dopo quella frase Calvino dice: ma la tensione della letteratura non è forse cercare di dire ciò che non sa dire, non è protendersi oltre il dicibile, non è andare aldilà di tutte le combinazioni, aldilà di tutto ciò che so dire, aldilà di tutto ciò che penso?

Insomma, alla presenza della vecchia suora, si sentiva ancora nell’ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva sempre cercato di modellarsi, ma il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro: era ancora la presenza di quel contadino e di suo figlio che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto, inesplorato.

Il vecchio contadino non aveva scelto nulla. Il legame che lo teneva stretto alla corsia non lo aveva voluto lui. Non aveva avuto la possibilità di scegliere che figlio avere. La sua vita era altrove, sulle sue terre, ma – dato di fatto – alla domenica faceva il viaggio per veder masticare suo figlio.

«Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti, d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.»

L’umano non ha confini. Se glie li metti tu i confini ce li ha, ma l’umano non ha confini. Quei due sono un territorio sconosciuto. Mi stanno indicando un’esperienza di fronte a cui ammutolisco. O meglio, di fronte a cui per un attimo ammutolisco, perché forse basta una semplice esperienza diversa, basta un semplice incontro, perché cambi il destino. Ma, capitolo successivo:

«Si sa come sono quei momenti in cui pare d’aver capito tutto: magari un momento dopo si cerca di definire quel che si è capito e tutto scappa.»

Si sa. Ho capito! Cerchi di definirlo e non hai capito più niente…

Lui richiama Lia e si accorge che lui, dove aver visto quel padre che schiaccia le mandorle al figlio, ha capito che l’amore, la parola amore è una parola in cui stanno dentro il suo rapporto con Lia e il rapporto di quel padre con quel figlio. Perciò ha bisogno di ridefinire l’amore ed è in uno stato d’animo diverso. Certo, non può ammettere “ho cambiato idea” sul figlio, non può ammetterlo, però si accorge che è in uno stato d’animo diverso. La chiama e… cominciò a farle un discorso che non c’entrava niente. E allora Lia pure rispose con un discorso che non c’entrava niente.

Il romanzo finisce e non sappiamo più. È un pugno nello stomaco. Un incontro che potrebbe cambiarti la vita, ma evidentemente non basta appena un incontro per cambiarti la vita. Ci vuole qualcos’altro.

Il Barone rampante

Il Barone rampante un giorno quasi per gioco dice: io salgo su un albero e ci rimango e vedete se non ci rimango davvero! E si ostina, e ci rimane, passano i giorni e non scende, e rimane sull’albero, lui ormai è rampato. E ad un certo punto legge Voltaire, è un filosofo illuminista, anzi si mette ad ammaestrare le folle dall’alto dell’albero, perché il mondo lo si vede bene soltanto ad una distanza necessaria, non bisogna sporcarsi le mani, il mondo lo si vede mantenendo quel distacco critico, non immischiandosi mai, perché è da questa prospettiva che si vede il mondo, è solo dall’alto che si vede il mondo, e insegna a tutti come si vive. E lo insegna sui libri su cui si è formato Calvino, cioè sui libri del ‘700 degli illuministi.

Ad un certo punto vede da sopra quest’albero una ragazza che si chiama Viola ed era la bambina che giocava con lui quando erano piccoli, sugli alberi, e quasi per scherzo Viola sale sugli alberi, e iniziano a giocare, e stanno benissimo. Ad un certo punto si accorge che lui, il mondo, con i suoi ragionamenti, non l’ha mai capito come invece l’ha capito in quei pochi momenti passati con Viola. E gli succede di nuovo quando incontra un’altra ragazza. Quando fa degli incontri finalmente capisce il mondo. Dovrebbe scendere. Sia Viola che Ursula glie lo suggeriscono: scendi! No, lui preferisce rimanere fedele alle sue idee anziché scendere, perché il mondo lo si capisce ad una distanza necessaria. Ma non è vero, l’ha detto lui stesso: il mondo l’ho capito meglio stando con Viola che con tutte le mie idee.

Forse il mondo lo si capisce quando, anziché fare un discorso sulla società, semplicemente vai da quel padre che schiaccia le mandorle al figlio e non hai il problema di definirlo. Gli chiedi: scusa posso stare con te? Non glie lo dici neanche a parole: mi insegni come si fa ad amare, mi insegni che cos’è l’umano? Non glie lo si dice neanche, ci si siede in silenzio e lo si guarda schiacciare le mandorle. Non si sale su un albero illudendosi che dall’albero vedi meglio le mandorle.

Quella volta lo scrutatore salì sull’albero dei suoi discorsi e l’incontro non gli cambiò la vita.

Pasolini sull’aborto

Quando Pasolini risponde a Calvino nell’articolo del 1 marzo 1975, scrive: essere per l’aborto sembra oggi una patente di illuminismo, progressismo, spregiudicatezza. Chi è moderno è per i nuovi diritti. Va di moda.

Pasolini e Calvino si conoscevano bene, erano cresciuti insieme. Pasolini aveva detto, una volta, recensendo Le città invisibili di Calvino, io e Calvino per tanti anni ci siamo amati a distanza, credevamo di essere al centro di qualcosa, credevamo che tutti e due stavamo dicendo delle cose importanti, poi ad un certo punto negli anni ’60 c’è stata una spaccatura del mondo e ci siamo accorti che io e lui eravamo nelle parti opposte della spaccatura.

Quindi gli dice: guarda Calvino, essere a favore dell’aborto e del divorzio vuol dire mettersi addosso una patente di uomini alla moda, ma tu non hai capito che i tempi sono cambiati, oggi c’è una nuova realtà storica. Noi siamo cresciuti in un regime clerico-fascista che era piena – quest’epoca – di tanti falsi sentimenti e di tante false sacralità. E noi cosa abbiamo fatto, con la nostra formazione? Abbiamo reagito contestando quei falsi sentimenti e quella falsa sacralità. Abbiamo fatto bene.

Ma non ti sei accorto che questa nostra reazione di colpo è stata fatta ingiallire dalla storia. I vecchi argomenti laicisti fanno ridere. L’aborto, dici tu, è un drammatico diritto della donna perché nessuno sa quando la donna si trova sola in quel momento, ma Pasolini gli risponde, senza mezzi termini: però quando l’ha fatto il figlio non era da sola. Perché il problema dell’aborto presuppone un problema oggettivo precedente: quello del coito.

Guarda Calvino – dice Pasolini – tutte le libertà che stiamo prendendo adesso sono false libertà. Il Potere le concede per una ragione semplicissima, non te ne sei accorto: in questi 15 anni il mondo è cambiato. Il regime di oggi non è più il clerico-fascismo e quindi sei un ribelle se sei a favore dell’aborto. Oggi sono tutti per l’aborto, anche quelli che vanno in chiesa. Perché il Potere ci ha fatti diventare tutti dei consumatori e tu, se non sei in coppia, non sei un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar. L’uomo moderno beve e l’uomo moderno ha le sue storielle.

Adesso è successo – caro Calvino – che siccome una ragazza ce l’hanno subito tutti, sta scomparendo la prostituzione vecchio stile perché tanto i maschi le prostitute ce le hanno gratis. E tutti si accoppiano, perché chi non si accoppia non è un uomo moderno, non ci sta su Carosello: consumano beni e consumano persone.

La vostra legalizzazione dell’omicidio – dice Pasolini – non è una conquista laica, razionale e illuminista. Non avete capito. Voi fate il gioco del Potere dei consumi. Si può consumare anche un bambino. Si può consumare anche una donna.

Il Potere dei consumi vi fa giocare. Fa giocare i laicisti di qua e i religiosi dall’altra, tanto poi li mette insieme. Ci sono degli esempi di un’attualità disarmante: uno storico discorso di Paolo VI.

Dice Pasolini: Paolo VI in uno storico discorso a Castelgandolfo si è accorto che la Chiesa non ha più il ruolo che ha avuto per due millenni. Perfetto. È la grande occasione che ha la Chiesa di dimostrare qual è la sua vera natura, che non è quella che il Potere fa vedere. Perché il Potere per l’anno santo farà molte trasmissioni, la televisione darà spazio al Giubileo, tanto il Potere la Chiesa l’ha ridotta a puro folclore. Mentre il vissuto degli italiani non è più religioso, perché ditemi in quale pubblicità di Carosello c’è qualcosa di religioso.

Caro Calvino: essere a favore delle richieste della società è un mettersi dalla parte del Potere. Non hai capito che le tue idee sono state già ingiallite dalla storia. Il Potere fa la sintesi. Decide di cosa parliamo. Decide quali sono i due schieramenti. Decide che tu devi stare in uno dei due schieramenti. E poi fa lui.

Contro la criminalità: abolire la scuola e la televisione

Ultima polemica tra i due, quando c’è il massacro del Circeo, nel 1975. Calvino scrive: finalmente sono stati trovati i colpevoli, sono dei pariolini fascisti. Ecco, dove andremo a finire?

E Pasolini ancora una volta gli risponde: caro Calvino, devo riprendere la solita litania. Non hai capito. Tu sei interessato a questo evento perché sono stati dei pariolini fascisti, perché sono fascisti e sono dei fighetti figli di papà. Non hai capito una cosa: i fascisti e gli antifascisti sono stati omologati, i ricchi e i poveri sono stati omologati. Non è perché sono fascisti che hanno ucciso. È perché noi viviamo in una cultura che ha generato un ambiente criminaloide di massa.

Ogni volta che succedono casi di criminalità, c’è la solita ondata di stupidità giornalistica. Tutti pensano che siano casi estremi, mele marce. Non avete capito. L’ambiente in cui viviamo è criminaloide perché un giovane che si ritiene imbecillemente sazio può diventare cattivo e se gli capita l’occasione uccide.

Pasolini arriva a dire: togliete le facce di quelli lì, mettete le facce dei vostri figli, negli occhi troverete la stessa tristezza. Volete sapere quali sono le mie due proposte per eliminare la criminalità?

  1. Abolire immediatamente la scuola
  2. Abolire immediatamente la televisione

Se in Italia c’è la criminalità non è perché ci sono i quartieri bene e ci sono delle ideologie. È perché la scuola e la televisione hanno reso la vita niente. Calvino, rispondimi adesso.

La lettera di Pasolini è datata 30 ottobre 1975. Due giorni dopo Pasolini viene ucciso da alcuni che non erano pariolini fascisti. Calvino, il 4 novembre, due giorni dopo, gli scrive: “Avevi ragione”. E tanto avevi ragione, che quello che aveva segnato la nostra differenza, cioè il tuo comunicare traumaticamente una presenza, tu quando parli non dici solo delle cose, comunichi traumaticamente una presenza, sei tu il protagonista.

C’è un bellissimo libro che si chiama “Pasolini contro Calvino” in cui l’autrice Carla Benedetti dice quali sono le differenze proprio dal punto di vista letterario: Calvino è un autore che si nasconde, Pasolini c’è sempre. Pasolini è come un performer, è uno che ha bisogno di comunicare sé, di mettersi in primo piano. E Calvino deve dirgli, due giorni dopo la morte: “Avevi ragione”. L’hai dimostrato perfino con la tua morte. Ancora qui la tua presenza, come le tue parole.

Non aver paura di avere un cuore

Pasolini può chiudere così:

«Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria.
Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo»

«Al contrario di Calvino, io dunque penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore.»

Non bisogna più aver paura di avere un cuore: che cos’è il cuore? Che cosa mai potrà essere il cuore rispetto a tutto il problema che c’è: il potere, la crisi economica, l’Isis, che cos’è un cuore?

Rispetto all’invadenza del potere, che ci condiziona da lontano e da vicino, ci condiziona con i mezzi di comunicazione, con i nostri amici, ci condizioniamo l’uno con l’altro, noi siamo dentro questo meccanismo, ogni film che vediamo, ogni canzone che sentiamo, ogni parola che diciamo, ogni argomento di cui parliamo, ogni volta che apriamo Facebook, il Potere ci stringe.

Non si capisce più niente del mondo e tutte le cose che ci sembravano giuste le dobbiamo rimettere in discussione perché il nuovo Potere dell’edonismo consumista se le mangia, le assorbe, le fagocita. Rispetto a questo Potere, che chance abbiamo? Possibile che la chance che abbiamo rispetto a questa invadenza sia non aver paura di avere un cuore? Cioè non aver paura di andare a sedersi affianco a quel contadino che schiaccia le mandorle al figlio? Scendere dall’albero, restare dentro l’inferno.

Possibile che non aver paura di avere un cuore sia veramente un’alternativa al Potere? Possibile che – come diceva Pasolini – la Chiesa abbia un compito storico, perché dopo 2000 anni in cui è stata centrale, adesso che non è più centrale: finalmente, può mostrare la sua vera natura. Possibile che sia così? Solo un esempio me l’ha fatto capire quest’anno.

Io dopo 15 anni sono stato immesso in ruolo. Per gli addetti ai lavori della scuola sono un docente potenziatore della fase C, cioè ho cambiato mestiere: non ho più una classe, non ho più un orario, non faccio compiti in classe, non interrogo, arrivo la mattina alle 8:00 e chiedo: che c’è da fare? Ah, vai a fare due ore in quella classe… ok, vai lì, fai il primo quarto d’ora di litigio/corteggiamento con la classe perché sei un marziano, arrivi in classe e pretendi di fare lezione, loro non la fanno con i loro professori titolari, la devi fare tu… insomma, è una cosa strana, faccio un mestiere nuovo.

Però una mattina a dicembre sono arrivato in bicicletta davanti a scuola e ho trovato la scuola chiusa perché l’avevano “okkupata”. Ed è iniziato un dialogo surreale dietro le sbarre, un dialogo carcerario e io dicevo – perché sono una celebrità nella scuola, avendo fatto supplenza in tutte le classi ormai li conosco tutti – “ma cosa pensate di costruire, ma dai, è un gesto di moda!”.

Io ho Pasolini nelle vene: il conformismo degli anticonformisti; i sessantottini fighettini figli di papà che fanno a botte con i poliziotti che credono di fare la lotta di classe e non hanno capito che è il contrario, che loro hanno i soldi e i poliziotti sono i poveri. Ma cosa occupate? Cosa pretendete di fare? Al che uno – vi risparmio tutto il dialogo in barese stretto – mi dice: perché lei con le sue supplenze che cosa crede di fare?
E mi ferisce nel vivo [tono ironico].

L’aiuto insperato arriva da un ragazzo, steso sul cancello, incappucciato, intravedevo a stendo gli occhi e dei baffetti, si alza lentamente perché non poteva disturbarsi, squadra l’altro e gli dice: sai cosa conclude questo con le sue ore di supplenza? Che quando è venuto una volta in classe mia non mi volevo più alzare dalla sedia.

E mi è tornato in mente Pasolini. Perché in quell’istante ho avuto una percezione incredibile. Ho detto: da dove può ricominciare la scuola? Da dove può ricominciare il mondo? Da dove può ricominciare l’Italia? Da uno che dice: io non volevo più alzarmi dalla sedia. Da uno che torna ad amare il posto in cui si trova, da uno che torna ad amare la vita, da uno che dice: ci voglio tornare domani, non vedo l’ora di svegliarmi. Da uno che dice così.

Non lo so. Non lo so se questo ragazzo darà spazio o no. Non lo so se farà dei discorsi da sopra, se salirà su un albero, non lo so se basterà questo incontro, non lo so. Non so se avrà paura di avere un cuore. Ma ditemi: esiste un altro punto da cui può ricominciare la scuola?

Il cuore sembra l’elemento più impalpabile rispetto ai problemi in gioco eppure è l’unico elemento irriducibile, perché il Potere attacca lì. Attacca sul cuore e l’unica terra che dobbiamo difendere è il cuore, cioè quella nostalgia, quelle lacrime che diceva Pasolini. Forse ora possiamo anche noi – come dice Pasolini in una poesia – piangere per quello che abbiamo perduto. Perché dice:

«Oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto»

Forse ora possiamo piangere e capire che tutta la conoscenza del mondo è dentro una nostalgia, dentro un cuore che avverte che manca sempre qualcosa. Io vi auguro di dare spazio a questo cuore.

Risposte alle domande

Puoi raccontare cosa è successo quando Calvino ha presentato a Pavese alla casa Einaudi il suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno? Mentre in riferimento a Il barone rampante, quando il protagonista dice “qualsiasi cosa succeda io non scendo”, mi viene un mente una diatriba tra 2 filosofi, oggi anche ingiustamente dimenticati, come Augusto Del Noce e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, esponente del laicismo torinese, disse a Del Noce (che invece era un grande filosofo cattolico della seconda metà del ‘900): “tu forse hai ragione, ma indietro non si torna”. Una frase su cui si potrebbero scrivere libri interi. Su questo orgoglio di Bobbio e del barone rampante, è su questo orgoglio che molto spesso il potere fa leva per avere miglior presa su di noi?

È così vero che un incontro può cambiare la vita se gli dai spazio, che quando Calvino ha scritto il primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, è andato a darlo a Pavese che era più grande di lui ed era già un grande scrittore affermato, Calvino era un giovane che lavorava all’Einaudi con lui, ed era convinto di aver fatto anche lui il suo “romanzo impegnato” perché era ambientato nella resistenza.

Pavese gli ha detto: “bella questa fiaba”.
Come bella questa fiaba? Ho fatto il romanzo impegnato!
Tenete presente che sono le due polarità della letteratura: il romanzo impegnato e il romanzo di evasione.
Ci sarebbe da fare tutto un corso nelle scuole per spiegare che Le cronache di Narnia hanno più realtà dentro di Gomorra.
Sembrano due polarità: si confonde il genere che può essere fantasy ad esempio, con la sostanza di un romanzo.
Pavese dice: è una bella fiaba, si vede, tu leggi Ariosto, la tua vocazione è fiabesca.

Calvino racconta: io non mi ero accorto di che scrittore ero, io avevo scritto il romanzo, ma Pavese aveva capito il mio romanzo meglio di come l’avevo capito io che l’avevo scritto. E ho capito, io che pensavo di scrivere storie partigiane, ho pensato che in quell’incontro c’era il mio destino che era fiabesco. E infatti: Cavaliere inesistente, Il Barone rampante, Il visconte dimezzato, Marcovaldo… la mia storia era stata segnata da quell’incontro, molto più vero di tutto quell’andare avanti con i propri schemi, bruciati in un attimo, tutti i propri schemi. Si poteva tornare indietro rispetto a ciò che si era pensato.

Risposta sulle differenze tra Pasolini e Calvino

Calvino ha cambiato pelle più volte, però questa leggerezza è effettivamente il suo tono, dal tono fiabesco… È vero che lui cambia, sembra che si nasconda in ogni opera, sembra che giochi a stupire il lettore mostrando un Calvino diverso da quello dell’opera precedente, però in questo nascondimento continuo c’è Calvino e c’è alla fine quella leggerezza che è affascinante e al tempo stesso è così poco pasoliniana.

Calvino – non vorrei sembrare scortese nei confronti di Calvino – può buttarla sempre in battuta. Calvino sa come prendere le situazioni e farne discorsi brillanti, acuti, geniali, bellissimi, leggeri.
Pasolini, invece, non ha paura di entrare nella tragedia, potremmo dire di buttarla in pesantezza. Calvino è leggero, Pasolini è pesante.

Calvino ha fatto sempre una letteratura canonizzata, che rimaneva nei confini di ciò che è la letteratura. Uno legge un romanzo di Calvino e sa cosa si trova. Se uno venisse ad una conferenza di Italo Calvino, si troverebbe un’eccitante conferenza letteraria.
Pasolini probabilmente ci sconvolgerebbe perché sarebbe lui con il suo corpo a farci saltare tutti gli schemi.

Risposta sui mass media

Se uno legge Pasolini, se uno ci convive con Pasolini, inizia ad avere uno sguardo nuovo perché la profondità con cui lui ha avvertito non solo in anticipo ciò che vediamo, ma a volte con un anticipo così grande che noi non le vediamo neanche più.

Noi adesso vediamo su un maxischermo ciò che lui ha visto embrionalmente. Altre cose sono così ovvie per noi che non le vediamo nemmeno più. La sua profezia abbiamo bisogno di recuperarla.

Leggere Pasolini è la possibilità di guardare certe cose che sembrerebbero ovvie. Si può ripensare il rapporto con tutto: con i giornali, con la scuola, con la politica, con l’educazione dei figli, con le grandi discussioni dei nostri tempi.

Leggere Pasolini vuol dire avere uno sguardo che non è solo schiacciato dalle evidenze che il Potere vuole propinare.

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