Ammirazione dell’«obbedienza» in senso antico – Pasolini

Pubblicato su «Il Mondo» il 7 agosto 1975 con il titolo "Soggetto per un film su una guardia di PS"

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Tutti l’hanno distrattamente letto. Circa un mese fa un poliziotto si è ucciso perché il detenuto che gli era stato affidato è fuggito approfittando della fiducia che il poliziotto gli aveva concesso.

Un amico di questo poliziotto, svolgendo indagini per conto proprio nelle ore di libera uscita, e dopo un lungo appostamento, è riuscito a catturare l’evaso. L’ombra del ragazzo suicida è stata così, almeno nella fantasia del suo amico, e almeno in parte, placata.

Ho chiamato altrove («Corriere della Sera», 18 luglio 1975) questo episodio un episodio di obbedienza. Obbedienza a una serie di norme, e quindi di valori, che definiscono una cultura ora scomparsa (quasi totalmente, benché da pochi anni).

Queste norme e questi valori erano tradizionali. Appartenevano cioè realmente a un universo popolare che, attraverso essi, si era creato un modo di essere ormai funzionante da secoli. Nel tempo stesso però, tali norme e tali valori, assunti dal potere, venivano alienati e reimposti attraverso la repressione poliziesca, di carattere clerico-fascista (si tratta di una operazione non incoerente perché infatti tali norme e tali valori, anche nella realtà della vita popolare nel suo momento autonomo, erano di carattere religioso e paternalistico).

Ora, ripeto, tali norme e tali valori sono caduti, perché è stata distrutta la cultura che li esprimeva e ne era espressa. Essi restano «cristallizzati» nell’ala reazionaria e sopravvivente del potere clerico-fascista. Ma nessuno ci crede in realtà più, né i preti né i generali. Tuttavia essi incombono ancora, potenti e affascinanti, dal recente passato, sia come spettro popolare, positivo, sia come spettro clerico-fascista, orrendo. Fra l’altro, noi crediamo ancora che siano essi a regolare la nostra vita (le nostre idee sulla realtà e il nostro comportamento).

Il poliziotto suicida, di nome Vincenzo Rizzi, lui ci credeva ancora veramente. Veniva da una famiglia povera e perbene del Sud, dove aveva assimilato quelle norme e quei valori nella loro innocenza naturale, ed era stato educato poi ad essi autoritariamente in quanto allievo della Polizia. La quale Polizia deve naturalmente fingere che quelle norme e quei valori abbiano ancora corso normale. Altrimenti in nome di che cosa parlare ai suoi allievi?

Dunque Vincenzo Rizzi era un ragazzo «obbediente». Cosa, questa, assolutamente originale in un mondo di «disobbedienza». «Disobbedienza retorica» (quella creata e manovrata dal potere come contraddizione a se stesso e soprattutto come garanzia di modernità, assolutamente necessaria al consumo) e «disobbedienza reale» (quella degli sparuti gruppi rivoluzionari e di una enorme massa di criminali).

Io considero dunque screditata la parola «disobbedienza», mentre penso che debba essere rivalutata la parola «obbedienza».

La storia del poliziotto Vincenzo Rizzi è di conseguenza, ai miei occhi, una storia commovente e esemplare. Ma può un uomo, un ragazzo, mantenere dentro di sé intatta e, appunto, quasi cristallizzata, una «cultura», cioè un intero sistema di valori? Quando – s’intende – si parla di una cultura in senso antropologico, di un sistema di valori capaci di determinare il modo di essere fino all’ultimo dettaglio fisico?

Può tutto il mondo essere «mutato» e restare «immutato» solo dentro a una persona, o a certi determinati gruppi di persone (per lo più poliziotti o militari che sono gli unici, appunto, visibilmente, a conservare una certa grazia italiana antica)? No, ciò non è possibile.

In che modo dunque anche il poliziotto Rizzi era stato «contaminato» da quella «falsa disobbedienza» che è in realtà la «vera obbedienza» alle regole imposte dal nuovo potere? Il ragazzo Cosimo Marra, cioè il poliziotto amico di Vincenzo Rizzi, e suo vendicatore, nel rilasciare qualche intervista (non mi risulta a giornali importanti, ai giornali, cioè, di palazzo, bensì a giornali più umili, che si nutrono, per formula, di fatti di cronaca) è stato naturalmente reticente per quanto riguarda la condotta del suo amico. Non ha voluto interferire, sia per delicatezza, sia per diplomazia.

Marra, mi sembra, non ha l’innocenza passionale e apprensiva che aveva Rizzi: c’è in lui già una certa coscienza carrieristica, piccoloborghese, che tende a metterlo dalla parte dei superiori. Non per niente egli si sta preparando per essere ammesso a un corso di sottufficiali. Si direbbe che il valore primo per lui sia quell’Ordine, che è l’unico in nome del quale si potrebbe ancora alzare una voce reazionaria (caduti «Dio», la «Famiglia» ecc. e magari, per quanto riguarda il mondo popolare, anche l’«Onore»).

Nel viso di Marra (è un regista che scrive) si possono leggere – almeno nell’unica fotografia che ho potuto vedere – quel vago livore e quell’ostilità che deformano fatalmente i lineamenti di chi si considera difensore dell’Ordine. Ma egli è giovane, un ragazzo poco più che adolescente. La sua avventurosa azione di vendicatore è più forte, nel definirlo, di ciò che egli veramente è o che sarà. Dalle sue parole, risultano molto indirettamente quasi a squarci onirici, quelle che sono state le ultime ore di Vincenzo Rizzi.

A questo punto – a proposito di queste ultime ore – non si può non evitare un’analisi (sia pur onirica anch’essa) del detenuto, fuggito e ripreso. Costui non appartiene alla nuova malavita. Ë uno della vecchia malavita. Certamente egli sa «parlare» il dialetto antico, il gergo dimenticato. Probabilmente è spiritoso, niente affatto antipatico, violento, e conosce bene il vecchio codice della malavita, tanto simile del resto a qualsiasi altro codice di ogni cultura popolare.

Anche di questo detenuto parlo sulla scorta di una fotografia, un’unica fotografia. Egli mi si rivela cioè attraverso un linguaggio somatico, un linguaggio della presenza fisica, un linguaggio dei connotati…

Sul suo impianto antico, o addirittura arcaico, di giovanotto della malavita, è tuttavia colato, come fango o escremento, qualcosa di nuovo, qualcosa della malavita nuova. I capelli sono sofisticati, pieni di code sinistre e vagamente turpi; negli occhi è venuta a ristagnare una luce beffarda da abbiente, insieme a quella di una decisione invasata (che nei suoi archetipi era ben più folle e nobile); l’abbigliamento segue terroristicamente o ormai naturaliter la moda (dei più giovani di lui: i «pischelli» afasici e cattivi come vipere).

Dunque, Pietro Merletti è un personaggio del mondo antropologico pre-consumistico, in via di degenerazione. Così come, mutatis mutandis, il giovane vendicatore Cosimo Marra (sempre a desumere dalle fotografie e dai pochi indizi – reali occhieggianti tra le righe di ciò che essi dicono). Il detenuto fuggito e l’amico vendicatore, i due personaggi affratellati dal rapporto col ragazzo suicida, sono molto più vicini a noi, molto più attuali e riconoscibili.

Da notare che, fino a poco prima di uccidersi, Vincenzo Rizzi non era meno amico di Pietro Merletti che di Cosimo Marra. Con ambedue egli aveva la possibilità dell’intesa: per le ragioni che ho detto, cioè la comune appartenenza a una sopravvissuta cultura popolare (contadina e sottoproletaria) preconsumistica. Il fatto che Pietro Merletti da una parte e Cosimo Marra dall’altra fossero parzialmente «contaminati» dal mondo moderno costituiva forse una ragione in più di fascino per l’ingenuo Vincenzo Rizzi.

Perché infatti Pietro Merletti ha potuto ingannarlo? Per la stessa ragione per cui Cosimo Marra ha potuto vendicarlo. Cioè attraverso la conoscenza di ciò che vale appunto in un mondo preconsumistico: l’onore, la fiducia, l’amicizia, l’omoerotia, la virilità, la dignità. In nome di tutto questo, Pietro Merletti ha potuto tradire Vincenzo Rizzi, e in nome di tutto questo Cosimo Marra ha potuto vendicarlo.

Dunque in quelle ultime ore di Vincenzo Rizzi – come si presentano a squarci nelle parole di Cosimo Marra – ciò che ha giocato un ruolo determinante sono dei valori in cui Vincenzo Rizzi credeva (onore, fiducia, amicizia, omoerotia, virilità, dignità) e che Pietro Merletti conosceva e poteva quindi sfruttare.

Lampeggia nelle parole di Marra una cenetta consumata insieme, da Vincenzo Rizzi e dal suo detenuto, in non so che trattoria di Centocelle, la cui sola idea basta a stringere il cuore. Quegli spaghetti, quel po’ di cattivo vino devono essere apparsi, negli ultimi istanti della vita di Vincenzo Rizzi, un intollerabile cedimento ai bassi istinti, una colpevole orgia…

Ma non ci sono solo i valori che ho detto a determinare il rapporto tra poliziotto e detenuto: c’è anche il sesso. E dunque un nuovo personaggio, una donna. Si chiama Calicchia. Se non sbaglio era la proprietária di quella trattoriuccia di Centocelle, che ho detto. Di lei non so nulla; non ho neanche davanti agli occhi una fotografia. Per immaginarla devo inventarla di sana pianta. E la nostra immaginazione è sempre convenzionale. Ma non importa: il ruolo della Calicchia è simbolico e ideologico. E ciò implica una certa astrattezza convenzionale.

Essa infatti non è una donna – come sarebbe stata in un film neorealistico e quindi nella realtà che un film neorealistico intendeva rispecchiare – ma è la donna. Del resto presumo che anch’essa, come il suo amico, Pietro Merletti, sia un personaggio della cultura preconsumistica in via di adattamento e quindi di degenerazione: degradata cioè dal mimetismo delle ragazze più giovani.

La società preconsumistica aveva bisogno di uomini forti, e dunque casti. La società consumistica ha invece bisogno di uomini deboli, e perciò lussuriosi. Al mito della donna chiusa e separata (il cui obbligo alla castità implicava la castità dell’uomo) si è sostituito il mito della donna aperta e vicina, sempre a disposizione. Al trionfo dell’amicizia tra maschi e dell’erezione, si è sostituito il trionfo della coppia e dell’impotenza.

I maschi giovani sono traumatizzati dall’obbligo che impone loro la permissività: cioè l’obbligo di far sempre e liberamente l’amore. Nel tempo stesso sono traumatizzati dalla delusione che il loro «scettro» ha dato alle donne che prima non lo conoscevano e lo mitizzavano, accettandolo supinamente.

Inoltre, l’educazione o iniziazione alla società, che prima avveniva in un ambito platonicamente omosessuale, ora è eterosessuale fin dalla primissima pubertà, attraverso accoppiamenti precoci. Ma la donna non è ancora in grado – data l’eredità millenaria di dare un apporto pedagogico libero: essa tende ancora alla codificazione. Che, oggi, può essere solo una codificazione più che mai conformistica nel senso voluto dal potere borghese, là dove la vecchia autoeducazione, tra maschi o tra femmine, obbediva a regole popolari (il cui archetipo sublime resta la democrazia ateniese).

Il consumismo ha dunque definitivamente umiliato la donna creandone un mito terroristico. I giovani maschi che camminano quasi religiosamente per strada tenendo con aria protettiva una mano sulla spalla della donna, o stringendola romanticamente per mano, fanno ridere o stringono il cuore. Niente è più insincero di un simile rapporto che realizza in concreto la coppia consumistica.

Dieci anni fa, se, per tagliare la corda, il detenuto Pietro Merletti avesse fatto presente al suo custode Vincenzo Rizzi la necessità di passare due ore dalla sua donna, il custode Vincenzo Rizzi avrebbe considerato tale necessità assolutamente irreale (anzi, per la verità, una simile istanza non si sarebbe neppure formulata nella mente né del detenuto né del custode). La castità faceva parte del destino di un uomo. La donna era un sogno, e i sogni aspettano o li si aspetta. Il coito sarebbe venuto alla sua ora.

Oggi invece, il detenuto esibendo la necessità di fare hic et nunc l’amore con la sua donna, ha potuto far subito breccia nel cuore del suo amico custode. L’ha ricattato con un/mito dell’età dei consumi. Si è impadronito di lui con un terrorismo a cui l’innocente Vincenzo Rizzi ha ceduto con tutto il cuore: perché nella sua cultura antica la donna era veramente un mito, ed egli non poteva sapere che la realizzazione di questo mito, nella cultura del mondo dei consumi, è falsa e cinica: è conformismo brutale e non libertà.

Non vedendo soluzione di continuità tra le due culture, Vincenzo Rizzi ha creduto che la realizzazione di un sogno così difficilmente realizzabile nella sua vecchia cultura fosse miracolosamente realizzabile nella cultura del mondo moderno.

Così, facendo della Calicchia non una donna (che aspetta che l’amico sconti in carcere la pena) ma la donna (che deve essere li pronta, subito, a disposizione, per collettiva, universale decisione), il consumismo ha fatto crollare con una sola delle sue intrasgredibili regole, tutte le regole di un sistema di valori, anche repressivi, che Vincenzo Rizzi così innocentemente e con tanta grazia viveva.

Naturalmente, se facessi un film su tutto questo, sarebbe inevitabile che tale film finisse con la proposta di una medaglia d’oro all’«obbediente» Vincenzo Rizzi. Su questo non avrei esitazioni.

C’erano mille ragioni in nome delle quali un ragazzo sentisse il dovere di morire nel 1945, e ancora nel 1965: gli era dunque più facile farlo. Che l’abbia fatto un ragazzo oggi è quasi incredibile. In attesa di una «nuova obbedienza» mi sembra giusto commuovermi ed ammirare la «forma» dell’obbedienza.

Pasolini, “Soggetto per un film su una guardia di PS” su «Il Mondo», 7 agosto 1975.

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