Sono contro l’aborto, sono per “questa vita umana” – Pasolini

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Proviamo ad immaginare l’uccisione di un bambino di 1 mese o di 1 anno, poi reso un rifiuto ospedaliero da gettare senza neanche un funerale e una sepoltura. Resteremmo rabbrividiti alla sola idea. Povero bambino. Eppure quello che avviene con l’aborto è scientificamente e biologicamente la stessa cosa, anche se per giustificarlo facciamo finta che non sia così. Un bambino dentro il ventre materno (che, per essere distinto da colui che è già fuori, è chiamato “feto”) è solo biologicamente meno sviluppato, come un bambino di 1 anno è meno sviluppato di uno di 2, ma parliamo della stessa cosa, della stessa vita umana, dello stesso destino che lo attende.

È sulla base di questa realtà innegabile che si fonda la posizione nettamente contraria all’aborto di Pierpaolo Pasolini che, per definirlo, non risparmia parole come “omicidio” e “genocidio”.

“C’è di mezzo la vita umana”

All’interno del suo articolo intitolato “Sono contro l’aborto” pubblicato il 19 gennaio 1975, Pasolini scrive:

“Sono contrario alla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.”

Il 25 gennaio 1975, in una lettera pubblicata su “Paese sera”, Pasolini scrive:

Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione. Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un’altrettanto furibonda, totale, essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso. Anche se poi nasce un imbecille.

Il 30 gennaio, nell’articolo intitolato “Sacer”, Pasolini risponderà ad Alberto Moravia scrivendo:

La mia posizione su questo punto coincide con quella dei comunisti. Potrei sottoscrivere parola per parola ciò che ha scritto Adriana Seroni su «Epoca» (25-1-1975). Bisogna evitare prima l’aborto, e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi «responsabilmente valutati» (ed evitando dunque, aggiungo, di gettarsi in una isterica e terroristica campagna per la sua completa legalizzazione, che sancirebbe come non reato una colpa). […]
Sono d’accordo coi comunisti sull’aborto. Qui c’è di mezzo la vita umana. […] 
Dunque dicendo «c’è di mezzo la vita umana», parlo di questa vita umana – questa singola, concreta vita umana – che in questo momento, si trova dentro il ventre di questa madre.
É a ciò che tu non rispondi. É popolare essere con gli abortisti in modo acritico e estremistico? Non c’è neanche bisogno di dare spiegazioni? Si può tranquillamente sorvolare su un caso di coscienza personale riguardante la decisione di fare o non fare venire al mondo qualcuno che ci vuole assolutamente venire (anche se poi sarà poco
più che nulla)? Bisogna a tutti i costi creare il precedente «incondizionato» di un genocidio solo perché lo status quo lo impone? Va bene, tu sei cinico (come Diogene, come Menippo… come Hobbes), non credi in nulla, la vita del feto è una romanticheria, un caso di coscienza su un tale problema è una sciocchezza idealistica… Ma queste non sono delle buone ragioni.

Non aver paura di avere un cuore

Il cuore della questione sull’aborto viene toccato da Pasolini il 10 marzo 1975, nel suo articolo intitolato “Non aver paura di avere un cuore”, titolo estrapolato dalla frase con cui conclude tutto il suo discorso.

Parlando di “cuore”, in questo articolo, Pasolini tocca sia le questioni antropologiche da cui scaturisce l’aborto (potere dei consumi, libertà sessuale, de-sentimentalizzazione, irreligiosità), sia la terribile modalità con cui chi – come lui – è in disaccordo con la maggioranza, viene attaccato, ghettizzato, proposto al pubblico disprezzo (l’intolleranza dei tolleranti).

L’osservazione di Pasolini può essere rappresentata con il seguente diagramma di flusso.

L’ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere

Pasolini scrive:

Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere.

Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria.

Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo.

La libertà sessuale che genera nevrotici infelici

Tornando al suo articolo “Sono contro l’aborto” Pasolini scrive:

“L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo.“ […]

Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore.

E nell’articolo “Non aver paura di avere un cuore” prosegue:

E poi impone una precocità nevrotizzante. Bambini e bambine appena puberi – dentro lo spazio obbligato della permissività che rende la normalità parossistica – hanno un’esperienza del sesso che toglie loro ogni tensione nello stesso campo sessuale, e, negli altri campi, ogni possibilità di sublimazione.

E ancora:

L’ansia conformisti­ca di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici.

L’intolleranza dei tolleranti

Un altro aspetto importante toccato da Pasolini è quell’intolleranza, mascherata da una finta tolleranza, che caratterizza improvvisamente le persone in questa nuova cultura che vuole l’aborto, e che lui stesso sperimenta come vittima.

Nell’articolo “Sono contro l’aborto” scrive:

L’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua «reale» tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l’intera sua storia. Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. É questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell’aborto.

Nella lettera al direttore di “Paese sera” scrive:

Caro direttore,
Le invio a parte, con una dedica che è segno di sincera amicizia – anche se nella fattispecie non è priva di polivalenze e di lunghe vibrazioni allusive – Thalassa di Ferenczi. Non è un testo sacro. Però son certo che per esempio Marcuse, Barthes, Jakobson o Lacan lo amano. É un libro delle «origini» della psicanalisi, non si può non amarlo. Lo legga. Preghi di leggerlo anche qualche suo collaboratore. Non c’è da imbarazzarsi: il non averlo letto non è poi così grave lacuna. Mi riferisco a un articolo uscito sul «Paese sera», del 21 gennaio 1975. «Le ceneri di Solgenitzin», che sarebbero poi le mie: a quanto pare, mi si vuole decisamente incenerito, se si tien conto anche dell’articolo di Eco sul «Manifesto» dello stesso giorno, «Le ceneri di Malthus», anch’esso riferentesi per interposta persona, alle mie ceneri. Son qui per cercar di risorgere ancora una volta, appunto dalle ceneri. Che, com’è noto, sono il resto di un rogo in cui generalmente si bruciano le idee. A questo proposito, vorrei anticipare che una delle lotte più piene di tensione degli uomini di sinistra è contro quella serie di commi del codice Rocco, che vertono il «reato di opinione».
Lei crede a questo proposito che ciò che ci indigna in tali commi del nostro codice sia la «punizione» che vi è contemplata? Quei famosi mesi con la condizionale che rischiamo ogni giorno? Non credo.
Ciò che conta è la condanna. La condanna pubblica. Il venire additati alla pubblica opinione come «rei» di idee contrarie alla comunità. Il suo collaboratore Nello Ponente altro non fa che pronunciare nei miei riguardi tale condanna: egli mi accusa di fronte a una «comunità» – la «comunità» degli intellettuali di sinistra e dei lavoratori – e mi accusa per un «reato di opinione». [….]

Con questa mia «opinione» io ho forse messo in pericolo il pci, la cultura di sinistra, la lotta operaia? Sono stato «fuorviante»? Sono stato un traditore del popolo? Ad ogni modo, il verdetto di Nello Ponente è più o meno questo. É vero che poi il testo della sua condanna è del tutto privo della lucidità burocratica delle condanne dei tribunali dello Stato. É alquanto più vivace, e anche decisamente più confusa.
Il nostro Nello Ponente ignora completamente la psicanalisi e virilmente vuole ignorarla. Non ha certo letto né Freud né Ferenczi, né altri, quali rappresentanti particolarmente spregevoli del «culturame» cui io mi onoro di appartenere. Nello Ponente (come, a quanto pare, Giorgio Manganelli) non ha mai sognato di essere immerso nell’Oceano: ed è indubbiamente quanto basta per distruggere decenni di ricerche psicanalitiche su tale problema.
Di conseguenza egli confonde il ricordo delle acque prenatali col «mammismo», cioè con la «fissazione» di un periodo della vita in cui il figlio, già naturalmente nato, si attacca alla madre. Nello Ponente, sempre virilmente, disprezza (sempre come Giorgio Manganelli) le «mamme». Mentre io non vedo ragioni se non conformistiche per vergognarmi di avere nei riguardi di mia madre, o meglio, di mia «mamma», un forte sentimento di amore. Esso dura da tutta la vita, perché è stato poi confermato dalla stima che io ho sempre per la mitezza e l’intelligenza di quella donna che è mia madre. Sono stato coerente con questo amore. Coerenza che in altri tempi ha potuto portare ai lager, e che comunque continua a bollare di infamia. Nello Ponente, con la stessa delicatezza con cui indica al popolo per il rogo Freud, Ferenczi e tutta la psicanalisi, addita me al disprezzo del popolo come «mammista». Naturalmente il disprezzo per il culturame avrà impedito a Nello Ponente di leggere tutta la lunga serie di poesie che io ho dedicato a mia madre dal 1942 a oggi.
Lo sfido a dimostrare che si tratta di poesie di un «mammista», per usare la sua volgare, conformistica, degradante definizione di uomo interscambiabile, livellato con qualsiasi benpensante, con qualsiasi bisognoso di appartenere a un branco.
E anzi a questo proposito, vorrei qui dichiarare pubblicamente che di un uomo così ignorante e così fiero della propria ignoranza io non sono, non sono mai stato e non sarò mai un «compagno di strada». La sua interscambiabilità, infatti, fondata sul conformismo e sul benpensare, non può che essere segno di una «continuità». La «continuità» della piccola borghesia italiana e della sua coscienza infelice (rifiuto della cultura, ansia della normalità, qualunquismo fisiologico, caccia alle streghe). […]

Aspetto che mi si convinca razionalmente e non attraverso illazioni a braccio sulla mia persona o sulla «correttezza» della mia ideologia.

Dopo aver dovuto subire, a causa delle sue opinioni e della sua diversità, altre illazioni sulla sua persona anche su L’Espresso, Il Manifesto, Il Messaggero, Pasolini non può che constatare quanto segue:

Non c’è anticonformismo che la giustifichi: e chi di anticonformistico non possieda che un fanatico abortismo, certamente ne è seccato e irritato. E allora ricorre ai metodi più arcaici per liberarsi dell’avversario che lo priva del suo piacere di sentirsi spregiudicato e all’avanguardia. Tali metodi arcaici sono poi quelli infami della «caccia alle streghe»: l’istigazione al linciaggio, l’elencazione nelle liste dei reietti, la proposta al pubblico disprezzo.

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