Fuori dal Palazzo – Pasolini

Pubblicato il 1 agosto 1975 sul Corriere della sera

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Il lettore mi perdoni se parto «giornalisticamente» da una situazione esistenziale. Mi sarebbe difficile farne a meno.

Sono in uno stabilimento di Ostia, tra il turno di lavoro del mattino e quello del pomeriggio. Intorno a me c’è la folla dei bagnanti in un silenzio simile al frastuono e viceversa. Infuria la balneazione.

Quanto a me – occupato a rigenerarmi dal buio insano del laboratorio di doppiaggio – ho in mano «L’Espresso». L’ho letto quasi tutto, come fosse un libro.

Guardo la folla e mi chiedo: «Dov’è questa rivoluzione antropologica di cui tanto scrivo per gente tanto consumata nell’arte di ignorare?» E mi rispondo: «Eccola». Infatti la folla intorno a me, anziché essere la folla plebea e dialettale di dieci anni fa, assolutamente popolare, è una folla infimo-borghese, che sa di esserlo, che vuole esserlo.

Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. E mi disgustano soprattutto i giovani (con un dolore e una partecipazione che finiscono poi col vanificare il disgusto); questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili.

E io sono qui, solo, inerme, gettato in mezzo a questa folla, irreparabilmente mescolato ad essa, alla sua vita che mostra tutta la sua «qualità» come in un laboratorio. Niente mi ripara, niente mi difende. Io stesso ho scelto questa situazione esistenziale tanti anni fa, nell’epoca precedente a questa, ed ora mi ci trovo per inerzia: perché le passioni sono senza soluzioni e senza alternative. D’altra parte dove fisicamente vivere?

Ho «L’Espresso» in mano, come dicevo. Lo guardo, e ne ricevo un’impressione sintetica: «Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov’è, dove vive?» E un’idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: «Essa vive nel Palazzo».

Non c’è pagina, riga, parola in tutto «L’Espresso» (ma probabilmente anche in tutto «Panorama», in tutto «Il Mondo», in tutti i quotidiani e settimanali dove non ci siano pagine dedicate alla cronaca) che non riguardi solo e esclusivamente ciò che avviene «dentro il Palazzo».

Solo ciò che avviene «dentro il Palazzo» pare degno di attenzione e interesse: tutto il resto è minutaglia, brulichio, informità, seconda qualità… E naturalmente, di quanto accade «dentro il Palazzo», ciò che veramente importa è la vita dei più potenti, di coloro che stanno ai vertici.

Essere «seri» significa, pare, occuparsi di loro. Dei loro intrighi, delle loro alleanze, delle loro congiure, delle loro fortune; e, infine, anche, del loro modo di interpretare la realtà che sta «fuori dal Palazzo»: questa seccante realtà da cui infine tutto dipende, anche se è così poco elegante e, appunto, cosi poco «serio» occuparsene.

Negli ultimi due o tre anni questa concentrazione degli interessi sui vertici e sui personaggi al vertice è diventata esclusiva, fino all’ossessione. Non era mai successo in questa misura.

Gli intellettuali italiani sono sempre stati cortigiani; sono sempre vissuti «dentro il Palazzo».
Ma sono stati anche populisti, neorealisti e addirittura rivoluzionari estremisti: cosa che aveva creato in essi l’obbligo di occuparsi della «gente». Ora, se della «gente» si occupano, ciò avviene sempre attraverso le statistiche di «Doxa» o «Pragma» (se ricordo bene i nomi).

Per esempio: è indecoroso occuparsi di casalinghe, nominare le quali può al massimo mettere in un’ottima disposizione di spirito: le casalinghe, a quanto pare, non possono essere che dei personaggi comici. E infatti sull’«Espresso» ci si occupa delle casalinghe – questi animali enigmatici, lontani, perduti nelle profondità della vita quotidiana – perché una statistica di «Doxa» o di «Pragma» ha appurato che il loro voto è stato notevolmente importante per la vittoria comunista alle ultime elezioni. Cosa che ha fatto tremare il Palazzo, causando terremoti nelle gerarchie del potere. Le casalinghe vivono nella cronaca, Fanfani o Zaccagnini nella storia. Ma tra le prime e i secondi si apre un vuoto immenso, una «diacronia» che è probabilmente l’anticipazione dell’Apocalisse.

A cosa si deve questo vuoto, questa diacronia?
Perché la cronaca che è stata sempre così importante dal 1945 in poi, è ora chiusa in un reparto stagno, relegata in un ghetto mentale?
Analizzata, sfruttata, manipolata, è vero, in tutti i modi possibili suggeriti dalle norme del consumo, ma non collegata con la «storia seria», non resa, cioè, significativa?

Perché rapine, rapimenti, criminalità minorili, effettivi coprifuochi, furti, esecuzioni capitali, omicidi gratuiti, sono in concreto «esclusi» dalla logica e comunque mai concatenati?

Due ragazzi di diciassette anni a Ladispoli (luogo di villeggiatura della malavita) hanno ferito mortalmente a rivoltellate un loro coetaneo perché non gli aveva dato le candele della sua motocicletta che servivano alla loro: e il «Paese Sera» intitola il pezzo su questo fatto di cronaca Assurdo a Ladispoli. Assurdo forse nel ’65. Oggi è la normalità. Quel pezzo doveva essere intitolato Normale a Ladispoli.

Perché questo anacronismo nel «Paese Sera»?
Non lo sanno i giornalisti di «Paese Sera» che l’eccezione è trovare nelle borgate romane un diciassettenne senza rivoltella? Perché nessun giornale ha parlato di una sparatoria con mitra, a causa di una «Porsche» rubata, avvenuta due o tre sere fa a Tormarancio? Perché nessun giornale ha parlato dei colpi di rivoltella sparati alle gambe di un «giovanotto che fa il culturismo» da un ragazzo di quindici anni che gli ha gridato: «La prossima volta ti sparo in bocca»?

Voglio dire: perché la stampa rimuove e fa passare sotto silenzio migliaia di reati come questi (i furti e gli scippi non si contano) che avvengono ogni notte nelle grandi città, trascegliendo fra tali reati solo quelli di cui non si può decentemente tacere?
E per di più, sdrammatizzandoli, imponendo all’opinione pubblica un adattamento?

Ma non voglio rincarare la dose, e passare per un uomo d’ordine. Sia ben chiaro che la «malavita» mi interessa solo in quanto i suoi rappresentanti sono umanamente mutati rispetto a quelli di dieci anni fa. E ciò non è un episodio. Fa parte di un tutto unico:
di una rivoluzione antropologica unica, che comprende anche la mutazione delle casalinghe…

La domanda reale è: perché questa diacronia tra la cronaca e l’universo mentale di chi si occupa di problemi politici e sociali?
E perché, all’interno della cronaca, questa «divisione dei fenomeni»?

Ciò che avviene «fuori dal Palazzo» è qualitativamente, cioè storicamente, diverso da ciò che avviene «dentro il Palazzo»: è infinitamente più nuovo, spaventosamente più avanzato.

Ecco perché i potenti che si muovono «dentro il Palazzo», e anche coloro che li descrivono – stando anch’essi, logicamente, «dentro il Palazzo» per poterlo fare – si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari. In quanto potenti essi sono già morti, perché ciò che «faceva» la loro potenza – ossia un certo modo di essere del popolo italiano – non c’è più: il loro vivere è dunque un sussultare burattinesco.

Uscendo «fuori dal Palazzo» si ricade in un nuovo «dentro»: cioè dentro il penitenziario del consumismo. E i personaggi principali di questo penitenziario sono i giovani.

Strano a dirsi: è vero che i potenti sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro potere clerico-fascista, ma anche gli uomini all’opposizione sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro progressismo e la loro tolleranza.

Una nuova forma di potere economico (cioè la nuova, reale anima – se Moro permette – della democrazia cristiana, che non è più un partito clericale perché la Chiesa non c’è più) ha realizzato attraverso lo sviluppo una fittizia forma di progresso e tolleranza.

I giovani che sono nati e si sono formati in questo periodo di falso progressismo e falsa tolleranza, stanno pagando questa falsità (il cinismo del nuovo potere che ha tutto distrutto) nel modo più atroce.

Eccoli qui, intorno a me, con un’ironia imbecille negli occhi, un’aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico – quando non un dolore e un’apprensività quasi da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza…

Nello stesso numero dell’«Espresso» che dicevo, Moravia recensisce un film che parla di un padre perbene che ha un figlio contestatore, assassino ecc, e conclude – in assoluta coerenza con tutto se stesso – che a un simile padre, in un simile frangente, non resta altro che «cercar di capire il figlio»: non fare tragedie, non ammazzarlo, non ammazzarsi, ma cercar di capirlo.

E dopo che l’ha capito?, mi chiedo io, dopo che ha compiuto questo magnifico atto di liberismo morale? Certo, il capire di cui parla Moravia è un capire razionale, cioè occidentale, e comporta dunque la necessità di un susseguente agire.

Ammettiamo che questo padre – dopo essersi messo nello stato d’animo di un entomologo che studia il suo insetto – riesca alla fine a capire il figlio, e trovi che egli è un imbecille, un presuntuoso, un incerto, un aggressivo, un vanitoso, un criminaloide, – oppure anche un sensibile disperato – cosa dovrebbe fare? Accontentarsi di averlo capito?

Ma l’accontentarsi di capire implica imparzialità e indifferenza. Ë l’agire che qualifica.
E un padre che ama agisce. Egli è destinato a restare morto nella polvere come il negletto Laio: non esiste altra possibilità. Dunque il capire è il meno. E l’agire non può consistere in altro che nell’aggredire il figlio, per poter restare appunto alla fine morto sulla polvere.

Io guardo i figli, cerco di capirli e infine agisco: agisco dicendo loro quella che io credo la verità sul conto loro. «Voi vivete nella cronaca, che è la vera storia perché – anche se non è definita, non è accettata, non è parlata – è infinitamente più avanti della nostra storia di comodo; perché la realtà è nella cronaca “fuori dal Palazzo” e non nelle sue interpretazioni parziali o peggio ancora nelle sue rimozioni.

Ma questa cronaca vi vuole sconvolti in una crisi di valori, perché il potere, creato in conclusione da noi, ha distrutto ogni cultura precedente, per crearne una propria, fatta di pura produzione e consumo e quindi di falsa felicità.

La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che vi ha fatto perdere l’orientamento, e vi ha umanamente degradati. La vostra “massa” è una “massa” di criminaloidi a cui non si può più parlare in nome di niente.

Le vostre poche élites colte – socialiste o radicali o cattoliche avanzate – sono soffocate da una parte dal conformismo e dall’altra dalla disperazione. Gli unici che si battono ancora per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura “diversa”, proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute (quella di classe, borghese, e quella arcaica, di popolo) sono i giovani comunisti. Ma per quanto potranno difendere ancora la loro dignità?

Pasolini, “Fuori dal Palazzo”, 1 agosto 1975

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