Il linguaggio delle cose e il grido inespresso

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Pasolini diceva che il Centro ha omologato linguisticamente, ma non solo, il paese; ha di fatto annullato le differenze, ha annullato i dialetti, ha annullato le diversità, ha annullato tutte le particolarità, assimilando ogni diversità, assorbendola in un linguaggio unico.

La secolare questione della lingua si è risolta quando con l’avvento della televisione la casalinga siciliana e l’imprenditore lombardo hanno cominciato a dire «frigorifero». Cioè hanno cominciato a parlare un linguaggio medio fossilizzato, assolutamente impoetico, stereotipato.

Questo non vale solo per la lingua in senso stretto, vale per la lingua – diciamo così – dell’esperienza. Pasolini è stato uno studioso dei segni linguistici, un semiologo, ma un semiologo anche delle cose.

Intendo dire che quando lui scrive, per esempio, in uno dei suoi articoli raccolti in Scritti Corsari, quando parla della fossilizzazione del linguaggio verbale e dice:

Gli studenti parlano come libri stampati. I ragazzi del popolo hanno perduto ogni istintività gergale, è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. […] Una volta il fornarino era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. […]
Invece, adesso, si sta omologando anche lui, linguisticamente, nelle espressioni.

Quello che molto spesso mi è capitato parlando di Pasolini (tanti fanno finta di non pensare) è che quando Pasolini racconta queste cose parlando dei giovani (degli anni ’60 e ’70), parla di quelli che oggi sono settantenni. Sarebbe la generazione dei nonni.

Quindi il problema dei linguaggi e della comprensione del linguaggio giovanile ha delle radici lontane. Per non farla lunga: lui dice che gli adulti parlano una lingua della menzogna, ma se un adulto ti avesse educato – scrive in un trattatello che si intitola Gennariello – non sarebbe stato con le sue parole – perché nessuno educa con le sue parole – ti avrebbe educato con il suo essere.

Perché il linguaggio più convincente non è il linguaggio delle parole, è il linguaggio delle cose. Non è il linguaggio verbale, ma è il linguaggio fisico-mimico. Nessuno può opporre parole contro la vita. E questo che Pasolini mi ha insegnato è il dramma che io vivo tutte le mattine entrando in classe.

Tutte le mattine io mi accorgo che – insegnando italiano e latino – io ho a che fare con le parole, ma queste parole non hanno nessuna capacità di incidenza su una vita che va in un’altra direzione.

O meglio sì, le parole hanno una capacità di incidenza, nel senso che possono evocare una nostalgia, è l’effetto che in qualche modo la poesia di Virgilio può suscitare su Dante sperduto nella selva oscura. Può suscitare una nostalgia di Paradiso, ma poi la vita molto spesso è una selva oscura che le parole non riescono ad illuminare compiutamente.

Intendo dire che – come diceva Pasolini – c’è un’impotenza assoluta delle parole ad avere a che fare con le cose. La maggior parte delle cose che si hanno da dire restano un grido inespresso.

Una poesia del 1961 di Pasolini, intitolata Il glicine, dice: solo ciò che ormai è parola (la parola di Marx, di Croce, Freud, dei filosofi con cui pure Pasolini simpatizzava ideologicamente) – «solo ciò che ormai è parola la sua parola muta».

Sul piano delle parole, sul piano dell’ideologia, possiamo fare tanti discorsi condivisibili, ma non illuminano mai il chiarore, il buio che c’è prima, povero glicine!

«Quanto in te vive – e in me per te trema -resta represso gemito di cui non si sa, di cui non si dice.»

Quello che si agita, clandestinamente, dentro il cuore dei miei alunni, dentro il cuore dei ragazzi che incontro ogni mattina in classe e ho la fortuna di incontrare anche fuori dalla classe, quello che si agita dentro è un represso gemito di cui non si sa, di cui non si dice.

Ho la fortuna di ricevere dei loro messaggi, di incontrarli in momenti in cui mi dicono delle cose che probabilmente non dicono a nessuno: non dicono alla mamma, non dicono al fidanzato, non dicono agli amici, non le scrivono sui social.

Quando vedo la rappresentazione mediatica dei ragazzi, mi sembra di aver a che fare con un’altra razza, diversa da quella che io vedo, perché ciò che in te trema resta represso gemito di cui non si sa, di cui non si dice.

Per spiegarmi vi leggo una delle tante mail possibili. I primi di giugno mi ha scritto una mia alunna così:

Salve prof, volevo dirle che domani non verrò a scuola. Perché al momento non sto molto bene mentalmente. (chiarisco che si tratta di una persona che sta benissimo, io insegno allo Scacchi che è il liceo “in” di Bari, parliamo di ragazzi che non hanno chissà quali tragedie socio-economiche alle spalle. Ognuno ha le sue battaglie personali, però stiamo parlando del livello sociale migliore che si possa avere a Bari).
Non sto molto bene mentalmente e non trovo un vero motivo per andare a scuola. Oggi ho anche provato a concentrarmi sullo studio, ma con scarsi risultati. In questo periodo mi sento inutile e vuota, soprattutto per colpa della scuola. Sono davvero terrorizzata dal fatto di non essere ammessa agli esami. Non tanto per me, quanto per la paura di dare una delusione a tutti quanti, di essere criticata. Ammetto di aver pensato che c’è solo un modo per scappare da tutto questo. Ma così facendo fermerei il mio dolore, però ne causerei uno ancora più grande alle persone a me care. Ho iniziato a pensare di essere depressa, addirittura pazza, non so quale sia peggio, sto cercando di non dire ai miei come mi sento al momento perché mi consiglierebbero di andare dallo psicologo, cosa che io ritengo alquanto inutile perché non ha senso parlare con una persona che viene pagata per sentire i miei problemi. Ritengo questo uno degli anni più brutti della mia vita. Se mi chiedessero di descrivere la scuola con una parola la chiamerei “tossica”. Mi dispiace di assillarla sempre con i miei problemi, ma credo che lei sia l’unica persona in grado di ascoltarmi. Mi dispiace di non essere brava a scuola, mi dispiace, alcune professoresse mi fanno passare la voglia. Mi dispiace non aver alzato la mano in classe venerdì. So che dovrò tornare a scuola, perché ho delle interrogazioni da finire. Ma spero di trovare un motivo che mi faccia tornare.

Questa è una delle mille mail o dei mille WhatsApp possibili. Penso che sul contenuto non ci sia niente da commentare. La questione per me clamorosa è che questa è una mail clandestina: assolutamente nessuno al mondo (né i genitori, né gli amici, né i compagni di classe, né gli insegnanti) sospetterebbe che quella ragazza viva questo.

Il grande problema del linguaggio giovanile, a mio avviso, è il silenzio. Cioè è ciò che non dicono, ciò che non viene rappresentato, ciò che non trova parole.

C’è una canzone di Max Gazzè che dice: «Io spero che esista un Dio delle piccole cose che sappia i silenzi mai diventati parole». Cioè che sappia quelle cose che non si postano sui social, quelle cose che non si dicono il sabato sera perché non è il momento, non si dicono a tavola perché non è il momento, non si dicono in classe perché non è il momento. Perché a scuola c’è da spiegare, c’è da interrogare.

Pasolini è stato illuminante anche su questo perché dice: oggi i figli non sono più benedetti, noi abbiamo una situazione di benessere che non si è mai vista nella storia, e allora come mai queste generazioni sono le più malate che la storia ricordi? Se la medicina ha fatto progressi enormi? Perché tutte le nevrosi in realtà derivano da un sentimento primo, cioè dal terrore di non essere accolti al mondo con amore. Quando uno non si percepisce amato, si ammala.

Noi abbiamo vissuto questo a scuola. Secondo me c’è una notizia epocale che mi pare sottovalutata. In Puglia c’è stato, ad aprile 2021, una sorta di referendum, quando dopo 14 mesi di DAD c’era la possibilità di rientrare a scuola, quando in 19 regioni si era tornati a scuola, in Puglia c’era stata la possibilità di scegliere se tornare o no. Aldilà di tutte le parole che si erano dette in 14 mesi, sulla DAD tutti dicevamo “non ne possiamo più”, però la notizia è che messi il 26 di aprile davanti ad una scelta: in 19 regioni tornano, voi volete tornare o no?

Alle scuole superiori il 98% ha detto no. 98%! Questa è una notizia: la notizia è che la realtà non è più interessante. La notizia è che è meglio scappare dalla realtà anziché viverla. Questo aldilà delle dichiarazioni ufficiali, perché se parliamo siamo tutti d’accordo, che la DAD è insopportabile. Ma c’è un linguaggio delle cose e c’è un silenzio, c’è qualcosa che non si dice.

Io credo che questa differenza tra ciò che ci possiamo dire, tra ciò che le parole dicono e ciò che le cose dicono, sia il grande problema.

Un’altra ragazza scrive:

Domani ho il test di ingresso. Ne sto facendo tanti non sapendo cosa voglia fare. È straziante non trovare un posto al mondo mentre tutti lo hanno già trovato. Ho trascorso 13 anni di vita in un luogo che avrebbe dovuto farmi capire verso cosa tendo, ma mi ha solo frantumato. Ora navigo in un mare vastissimo di possibilità che mi soffoca e che mi fanno perdere. Cosa posso fare io, se non riesco nemmeno a trovare qualcosa per cui valga la pena vivere? Qualcosa per cui possa dire: qui ci sono io! Lo so, mi sto piegando alla mentalità degli adulti, ma come fare altrimenti? Mi sento tutta un turbamento. E peggiora anche il mio rapporto con il cibo, mi dico “oggi smetto” da 3 mesi.

Vi assicuro che questi due messaggi che ho letto sono di persone – lo so, è una parola sbagliata, ma è per intenderci – “normalissime”. Però c’è un sottosuolo.

A mio avviso, la grande partita del linguaggio, dell’ascolto, della comprensione tra di noi e dell’accettazione della diversità sta nel non avere paura di questo cuore (sto ancora rubando un’espressione a Pasolini).

Non avere paura di questo cuore vuol dire che molto spesso si ha paura di ascoltare ciò che ha da dire un alunno. Si ha paura. È più interessante dire all’alunno cosa dovrebbe dire e cosa dovrebbe non dire. Cosa dovrebbe pensare.

Perché io so che appunto ci sono tante soluzioni che un insegnante ha a disposizione, ma credo che appunto questa sia la trappola: fornire risposte bellissime a domande che nessuno pone e non avere niente da dire alle domande vere che i ragazzi pongono.

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