Il dolore e la scoperta della propria identità – E.Aceti

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Il libro di T. Terzani La fine è il mio inizio è stato un caso letterario sensazionale: appena uscito senza alcuna pubblicità nel 2006 è arrivato subito a quasi un milione di copie vendute. Quel titolo deve aver toccato un nervo scoperto dell’io profondo. […]

Il corpo, il piacere, il dispiacere

Comunque quel titolo può introdurre alla scoperta del corpo nel tempo della malattia, del dolore fisico, del dispiacere.

Si è inclini a tenere separata la “cognizione del dolore” dal comune senso della morte. La certezza della morte è fuori discussione. Nel tempo della malattia le condizioni fuori programma del corpo creano, a prescindere dal dolore fisico e dall’interiorizzazione del senso di morte, stati d’animo particolari.

Si vive l’interruzione del normale scorrere dei propri giorni come una vera “rottura” dei propri programmi (sconvolto il proprio ordine di priorità, la scala d’interessi). La forzata inattività fa andare su tutte le furie l’egocentrismo di chi non tollera che le cose non vadano “come devono andare”. […]

Proprio la passività del corpo, costretto a letto, stimola la compensazione: una maggiore attività dell’anima incarnata in questo corpo dolente e da animare in qualche modo.

Il tempo della malattia con le lunghe ore di forzata passività, l’isolamento dall’ambiente di vita, la stessa noia come prospettiva, spingono nel senso del “soprattutto pensa”. Ma c’è una spinta iniziale ancora più forte, che viene dal «perché?!».

«Perché proprio a me doveva capitare?» è la reazione pressoché universale al primo impatto cosciente con l’evento. Nessun animale se lo chiede: soffre e basta. Il nostro corpo è animato. Ed ecco fortissimo, spesso esasperato, quel «perché?» (con l’enorme carica emotiva con cui è detto o pensato) va scoperto in tutta la sua preziosità: è il filo di Arianna seguendo il quale si trova l’uscita dal Labirinto.

Come dire che, appena detto, quel «perché?» ci mette come in bilico tra il precipitare nell’imprecazione, senza neppure l’inizio dell’autocritica e l’incamminarsi per la strada che (si vede da lontano) porta all’invocazione.

Quel trovarsi in bilico è il “regalo”, in quanto è riaperta la strada nuova per chi camminasse da tempo in quella dell’Io-piacere. È come se da quel «perché?!» gli fosse data un’altra occasione […].

Anche ora il nuovo filo di Arianna (le più avvertite domande sul senso e la direzione della vita) può essere lasciato cadere. Il pericolo è quando con un nuovo lampo nel buio si intuisce che per arrivare al nuovo bisogna distaccarsi dal vecchio. Il primo impulso è troncare quel filo e, quanto al male fisico, “prendersela con le stelle”.

Di qui il bisogno più che assoluto, viene da dire, di veri amici (nella disgrazia si vedono i veri amici, si dice). Qui «vero amico» è decisamente nel senso di capace di amore educativo (o rieducativo). Mai come in quei momenti “in bilico” (veramente tra la morte e la vita) si ha bisogno di condividerli con un amico, che in quanto sinceramente amico fa «noi due», dà fiducia, sostegno.

Viene da dire che in concreto la vera missione storica della Chiesa è di essere l’amico vero nel mondo malato e malandato. La dimensione educativa va intesa nel suo senso genuino in quanto “di perché in perché” porta a scoprire nel proprio interno la «corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura» (come ha detto Benedetto XVI a Verona, nell’ottobre 2006).

Quanto al credente, che già pratica l’invocazione, il tempo della malattia è vissuto come misteriosa ma provvidenziale occasione per una rinascita del “tutto”.

È noto che molti malati, tornati ancora malati da Lourdes, si dichiarano guariti nel corpo e nell’anima. E non è una contraddizione. Guariti nell’anima, liberata da un modo di vivere il dolore proprio soltanto di chi si è identificato come Io-piacere.

Il cristianesimo è popolare perché è possibile a tutti: all’ingegnere, al filosofo, al teologo, alla casalinga, all’operaio, a tutti, perché è sostanzialmente rapporto. Se si ha rapporto con Dio, con il cuore, ove abita il centro, ove Gesù c’è, allora si scopre l’essenza della vita. Allora, la mamma che ha il figlio handicappato soffre e piange, ma, in quel rapporto con Gesù avverte che questa sofferenza ha un senso: il vivere solo per amore… E si ritrova a casa, ritrova lacrime di luce, gioia santificata, dolore consolatore.

Guarito dalla riduzione animalesca del dolore, guarito dall’individualismo, che non permette l’emozione del partecipare all’esecuzione della “sinfonia del nuovo mondo”, come strumento di vita non di morte, come sublimazione, per usare termini psicologici, come croce, più realisticamente, cioè dolore che, anche se morto, non muore, ma frutta la resurrezione in qualche parte del tutto.

E per questa coscienza, per l’essere l’anima incarnata, anche il dolore nella sua individualità fisica non è più dispiacere come prima. È animato da tutte queste emozioni. È vissuto come un “collaborare” all’Armonia di tutti insieme.

«Sono un’anima e ho un corpo»

Come dire: allora ne vale la pena.
Ecco la storia di un giovane (in quel di Varese).
Ventenne, sportivo in gran forma, lanciatissimo. D’improvviso un incidente stradale lo inchioda per sempre in una carrozzella. Terribili i primi tempi (quelli del «perché?!», mentre la voglia di correre resta più di prima nel sangue). È la fine, si dice, la fine di tutto: sogni, speranze, prospettive.

Poi, a poco a poco, qualcosa cambia. Ed è il corpo in primo piano. Proprio il corpo, prima ammirato con gusto allo specchio. Ma non era il corpo, distaccato dall’io, era l’io stesso, identificato nel corpo così in forma, che ammirava se stesso. Proprio il dolore, la deformità acquisita nel prostrarsi nella nuova condizione, matura la scissione: questo mio corpo e io che lo sto guardando. Prima con disgusto, rabbia, esecrazione.

E poi, come il miracolo di Lourdes: un modo nuovo di guardare e vivere il proprio corpo sofferente. Come ritrovarsi in mano il filo di Arianna che “di perché in perché” porta dal particolare all’insieme, dal pezzo rotto al vaso intero e prezioso, prezioso tanto che quel pezzo rotto ha un senso, una parte nella sinfonia.

Del tutto singolare è la “cognizione del dolore” acquisita attraverso tanto dolore. Singolare perché non è solo il buon motivo per accettare il dolore, è molto di più: è la scoperta della propria vera identità, mai prima posseduta e goduta.

«La fine è il mio inizio»

C’è un nuovo, grande motivo per ringraziare il corpo, che, cadendo ammalato, spinge l’anima a riflettere. Anche solo per simmetria viene spontaneo passare dal corpo malato all’ipotesi, se non altro, dell’anima malata.

Ma con realismo, che si può anche dire brutale, il corpo, ogni volta che “cade” malato, ricorda all’io cosciente che è mortale, che, sano o malato, ogni giorno fa un altro passo verso la morte, che la sua è fin dall’inizio parabola discendente, che fin da primo giorno è in fase terminale.

Certo, i credenti sono avvantaggiati: hanno più chiara la comune identità di esseri immortali, più descritta, più rivelata nella sua preziosità. Come quel fanciullo, attento all’ora di religione, che trovandosi tra la gente, mentre entrava nel porto di Porto Cervo una superba, delirante di lusso, barca miliardaria, mentre i vicini guardavano in muta adorazione e invidia, gli scappò di dire: «a casa mia ho cento volte meglio!».

Uno che sapeva, insomma. Ma forse è vero che bisogna «diventare come bambini» per sapere ciò che è vero e ciò che è falso. Ciò che è fine e ciò che è «il mio inizio».

Su questo, ragione e fede sono all’unisono: la fraternità non è vera, se non fa l’uguaglianza di tutti nel godere la libertà dal male (fame, malattie, ignoranza, schiavitù).

A questo punto però comincia la tragedia, perché noi occidentali, noi benestanti nel mondo del benessere, siamo trascinati dalla corrente di un sistema di vita all’insegna dell’Io-piacere, divenuto globale e, mediante un bombardamento massmediatico, «idiotizzante» (come scrive E. Fromm in Avere o Essere?), in una diffusa «atmosfera di intontimento» – scrive ancora E. Fromm – il consumismo imperante ci persuade a consumare molto in pochi, pur sapendo che così condanniamo molti a consumare poco o nulla. […]

La bellezza dell’Africa salverà il mondo

Continua a leggere nel libro “I linguaggi del corpo” di Ezio Aceti.

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