La festa del papà annullata, l’algofobia e la perla

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La direttrice di un asilo di Viareggio ha cancellato la festa del papà perché, secondo quanto ha dichiarato, “discrimina chi non ha un padre” e “la famiglia modello non esiste più”.

Il filosofo Byung-Chul Han, in La società senza dolore, definisce la nostra cultura «algofobica»: terrorizzata dal dolore, fino alla paralisi.

In questa stessa cultura si parla molto di «inclusività», ma spesso secondo una concezione parecchio distorta nella quale si confonde l’inclusione con l’incapacità di stare di fronte alle cose e guardare la realtà.

Può essere difficile il giorno della festa del papà per chi ne ha uno che è andato via di casa in seguito ad una separazione, oppure che non è più in vita o è lontano in questo giorno di festa per qualsiasi ragione, ma come affrontare questa difficoltà, questo dispiacere, questa tristezza, questa sofferenza?

La soluzione della direttrice di Viareggio è di cancellare direttamente la festa del papà e sostituirla con un’altra generica e non definita, censurando quindi la figura del papà così da scongiurare quei sentimenti e non pensarci, oltre che “discriminando” i bambini e i genitori che a quella festa ci tenevano.

In compenso, però, chi non ha un papà vivrà forse una giornata più tranquilla, priva di quei sentimenti lì, ma questa è davvero la cosa migliore per loro? Piuttosto che dare subito una risposta teorica, forse è meglio leggere direttamente l’esperienza, molto apprezzata e condivisa, di una persona.

Lo scrittore Alessandro D’Avenia, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera il 4 ottobre 2021 con il titolo Algofobia, scrive:

In una cultura che rimuove il senso del dolore, questa è una sfida educativamente urgente, perché la sofferenza più grande è la nostra resistenza alla sofferenza stessa, che da «estranea» può invece diventare prima «messaggera», poi «levatrice» e infine «noi stessi». […] Il dolore è vita che vuole guarire, non sofferenza insensata: come la perla è la cicatrice della ferita inferta all’ostrica da un predatore, il dolore è una verità che chiede attenzione e cura. Quando un bambino si ferisce, il genitore accarezza la parte dolente e gli racconta una storia. […] Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di originalità. Non possiamo privare i ragazzi — non a caso definiti «la generazione fiocco di neve» per come li iper-proteggiamo da cadute, lutti e fragilità — né del dolore né del codice simbolico per aprirsi alla sofferenza come cammino verso il nuovo e verso l’altro, altrimenti li consegniamo alla paralisi della paura e dell’indifferenza.

Quando ero piccolo non ho potuto partecipare alla gita di terza media perché i miei genitori non avevano i soldi per pagarmela. Fummo in due o tre a non poterci andare e la delusione per me fu tanta.

Seguendo la logica algofobica, definita anche «inclusiva», la gita avrebbe dovuto essere annullata per non far sentire escluso chi – come me – non poteva parteciparvi, privando però altre 20 persone di un’esperienza importante della loro vita. Non credo sarebbe stata la decisione corretta. Mi avrebbe solo trasmesso l’idea, un bel po’ presuntuosa, che tutto il mondo deve piegarsi a me.

In quella occasione, invece, imparai ad essere contento per i miei amici anche se io non potevo godere di quello stesso divertimento, quindi imparai meglio a non essere invidioso. Al loro ritorno abbiamo riso insieme quando mi hanno raccontato tutto quello che era accaduto. Poi imparai a perdonare i miei genitori per non aver avuto quei soldi che mi avrebbero consentito di parteciparvi, comprendendo le difficoltà.

La solitudine e l’amarezza di quei giorni non sono andate perse, ma hanno contribuito a formare la perla.

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