I borghesi – Gaber

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Negli anni 2000 ho visto i miei coetanei, e ancor di più le mie coetanee, entrare nel periodo della preadolescenza e dell’adolescenza con grandi desideri di felicità, amore e bellezza.

Nella maggior parte dei casi, però, tali desideri si scontravano con una realtà deludente, crudele e traditrice. Indubbiamente una realtà di stampo borghese, totalizzato e totalizzante.

Tale scontro generava disagio, malessere, sofferenza, ma santa sofferenza e santo malessere! Santi perché derivavano proprio da quei desideri che, nonostante tutto, erano ancora vivi insieme alla loro innata speranza di compimento. E non ci si arrendeva: c’era chi scriveva un diario personale, chi poesie, chi non smetteva di lottare, di provarci e riprovarci, ma spesso senza riuscirci.

Tuttavia il tempo passò, diventammo tutti grandi e quei desideri vennero sempre più anestetizzati dall’edonismo e cancellati dall’esistenza fino a non ricordare nemmeno più di averli avuti.

Adesso improvvisamente quel malessere non c’è più e sembra che tutto vada bene. Si sono sistemati, come volevano gli adulti: casa, lavoro, carriera, soldi e pieno accesso al mondo consumistico. Sono diventati, però, quello che mai avrebbero voluto essere: dei borghesi appiattiti.

Gaber ripercorre questo stesso ciclo parlando di un ragazzo che sta poco bene e che canta sempre una canzone come simbolo di opposizione al mondo borghese. Quando cresce, però, ogni malessere viene anestetizzato, borghese lo diventa anche lui e si sorprende nel vedere suo figlio stare male e cantare quella stessa canzone, perché non ricorda nemmeno più di averlo fatto anche lui.

Quando Gaber scrive questa canzone, nel 1971, fa riferimento ad una borghesia ancora legata a qualche formalismo tradizionale, ma nella sostanza già così attaccata alla sua ricchezza materiale da dimenticare l’io.

Testo

Quand’ero piccolo non stavo mica bene
ero anche magrolino avevo qualche allucinazione
e quando andavo a cena nel tinello con il tavolo di noce
ci sedevamo tutti e facevamo il segno della croce

Dopo un po’ che li guardavo mi si trasformavano
i gesti preparati degli attori attori consumati
che dicono la battuta e ascoltano l’effetto
e io ero li come una comparsa vivevo la commedia
anzi no la farsa.

E chissà perché durante questa allucinazione
mi veniva sempre in mente una stranissima canzone

I borghesi son tutti dei porci più sono grassi
più sono lerci più son lerci e più c’hanno i milioni
i borghesi son tutti

Quand’ero piccolo non stavo mica bene
ero anche molto magro avevo sempre qualche allucinazione
e quando andavo a scuola mi ricordo di quel vecchio professore
bravissima persona che parlava in latino ore e ore

Dopo un po’ che lo guardavo mi si trasformava
si la bocca si chiudeva stretta lo sguardo si bloccava
il colore scompariva fermo immobile di pietra
si tutto di pietra.

E io vedevo già il suo busto davanti ad un’aiuola
con su scritto prof. Malipiero una vita per la scuola
e chissà perché anche durante questa allucinazione
mi veniva sempre in mente una stranissima canzone

I borghesi son tutti dei porci più sono grassi
più sono lerci più son lerci più ci hanno i milioni
I borghesi son tutti

Adesso che son grande ringrazio il Signore
mi è passato ogni disturbo
senza bisogno neanche del dottore
non sono più ammalato
non capisco cosa mi abbia fatto bene
sono anche un po’ ingrassato
non ho più avuto neanche un’allucinazione

Mio figlio
mio figlio mi preoccupa un po’
è così magro e poi
e poi ha sempre delle strane allucinazioni
ogni tanto viene lì mi guarda e canta
canta una canzone stranissima
che io non ho mai sentito

I borghesi son tutti dei porci
più sono grassi e più sono lerci
più son lerci e più c’hanno i milioni
i borghesi son tutti
mah

Commento ed interpretazione di Capasa

Una volta ho conosciuto una persona che dopo un po’ di giorni mi ha detto: «Oramai siamo amici, te lo posso dire: io ero un alcolizzato, andavo agli alcolisti anonimi. E sai cosa mi ha colpito?

Quando ci raccontavamo come avevamo cominciato, uno diceva: io ho cominciato perché ero solo, non avevo trovato moglie, non avevo nessuno. Un altro diceva: io ho cominciato perché ero sposato, avevo i figli e la mia famiglia mi stava stretta. Poi c’era un altro che diceva: io ho cominciato perché non trovavo lavoro, ero disoccupato e ho iniziato a bere. E un altro diceva: io ero un imprenditore di successo, ma non mi poteva bastare.»

Tutti avevano cominciato per motivi apparentemente opposti. La grande idea che noi siamo riusciti a trasmettere, l’idea vincente dei nostri decenni, l’idea che non certo i ragazzi di 15 o 18 anni hanno fabbricato, ma quella che si ritrovano a respirare – perché gli adulti glie l’hanno messa in testa – è l’idea che devi far soldi, o meglio, ti devi sistemare, devi trovare un lavoro, devi farti una posizione. Questa è l’idea: sistemarsi, mettersi a posto.

Solo che in questo mettersi a posto emerge un disagio. Un ragazzo per fortuna si sente stretto, in una bella casettina sistemata con Sky e il divano angolare. Per fortuna un ragazzo sente qualcosa che non va, qualcosa che non funziona. E a volte lo dice ai più grandi. Il problema è che cosa poi ognuno di noi fa di quel disagio che da ragazzo ha avvertito rispetto a questo mondo sistemato.

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