Giussani: «la famiglia è attaccata perché l’uomo sia più solo»

Conversazione sul matrimonio tra monsignor Luigi Giussani e padre Antonio Sicar
in «Breve catechesi sul matrimonio», Jaka Book, 1990
ampi stralci in «Vergini come marito e moglie»

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Per poter dare a questo mio libro sul matrimonio una conclusione viva, ho chiesto a Monsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, di poter rivedere con lui, conversando, almeno le pagine più decisive.

Il motivo della scelta è per me ovvio: tra tutti i sacerdoti che conosco, nessuno sa parlare, come lui, della verginità cristiana. Può sembrare soltanto un paradosso, ma ciò rende evidente il cuore del mistero cristiano.

I due grandi comandamenti («amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze» e «amare il prossimo come se stessi») si sono unificati in uno solo, da quando Dio si è fatto nostro prossimo in Cristo: il prossimo più vicino, talmente vicino da toccarci ogni istante con i segni della sua Incarnazione, da nutrirci ogni giorno con il suo stesso Corpo.

S. Clemente Alessandrino attribuisce a Gesù questa parola non scritta: «Hai visto tuo fratello? Hai visto il tuo Dio!». Ma usare subito di questa splendente indicazione per idealizzare la faticosa presenza delle creature, sarebbe solo duro moralismo.

Prima ancora essa ci invita a guardare Cristo con gli stessi occhi di Pietro, Giacomo, Giovanni e di tutti i santi, per i quali Cristo è diventato il fratello di tutti i giorni («Mi ami tu più di costoro…?»).

Questo amore immediato a Cristo – il saper vedere l’intera creazione e gli uomini tutti come segni di Lui, e amarLo attraversando ogni altro amore ed ogni altra affezione – è la «verginità».

Chi nella Chiesa riceve tale vocazione, la riceve per tutti. Monsignor Giussani ama dire: «Chi vive la verginità cristiana come stato di vita è come un indice puntato, nella comunità, per dire a tutti: ricordiamoci chi siamo!».

Dunque chi vive verginalmente e si fa educatore di giovani ai «consigli evangelici» (Monsignor Giussani ne porta nel cuore centinaia, ai quali ha dato il nome di Memores Domini, cioè: «Coloro che ricordano – a sé e agli altri – il Signore») è particolarmente abilitato a comprendere e descrivere anche quel misterioso intreccio di natura e di grazia che è il sacramento coniugale.

Agli occhi del mondo, bisognerebbe chiamare solo dei coniugi a discutere sulla esperienza coniugale. Agli occhi della Chiesa, la conversazione di due «vergini» sull’argomento ha un interesse privilegiato. Così come sarebbe affascinante poter ascoltare certe coppie di sposi «cristiani» mentre discutono assieme sul mistero della verginità consacrata.

SICARI

Vorrei iniziare la nostra «conversazione sul matrimonio» riprendendo la frase di S. Agostino posta in apertura a questo libro:

«Quid tam tuus quam tu? sed quid tam non tuus quam tu, si alicuius est quod es?
Che cosa è così tuo come te stesso? ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?».

È tratta dal Commento al Vangelo di S. Giovanni, là dove Gesù dice: «la mia dottrina non è mia, ma del Padre che mi ha mandato». S. Agostino risolve dunque l’apparente contraddizione («la mia dottrina non è mia») ricordando la totale appartenenza di Cristo al Padre. Questo ci porta subito al cuore del problema, al tema della appartenenza nella sua forma più totale e radicale…

GIUSSANI

Sì, questa frase sintetizza, anche per noi uomini, una delle intuizioni più profonde: che il contenuto della propria autocoscienza si svela nella appartenenza a un altro e come appartenenza a un altro.

Ciò è evidente soprattutto nel bambino, tutta la coscienza che egli ha di sé è nella appartenenza, sperimentata come un bene, al padre e alla madre. Altrimenti viene impedito lo stesso sviluppo della sua coscienza.

SICARI

Parliamo ora della «appartenenza coniugale», quella che comincia a realizzarsi fin dal primo innamoramento…

GIUSSANI

Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro.

Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi «definitivo» della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà.

SICARI

Si tratta dunque, inizialmente, di una esperienza circolare: appartenendo ai propri genitori si acquista coscienza di sé, avendo coscienza di sé si diventa capaci di donarsi, di appartenere nuovamente, alla persona amata. Ma come si innesta in questo processo il bisogno di appartenere a Cristo?

GIUSSANI

Quando l’appartenenza richiesta è totale e impegna tutta la vita (e così è nel matrimonio), occorre che il sentimento di sé sia adeguatamente profondo. Allora ci si accorge che non basta più la coscienza di sé tratta dalla appartenenza alla propria origine terrena (padre, madre). Deve essere tratta dalla appartenenza totale a Colui che ci ha fatto, al Dio della nostra vita.

SICARI

Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? qual è il cammino da percorrere?

GIUSSANI

La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste.

Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio.

SICARI

Ciò significa che l’incontro d’amore provoca stupore, ma lo stupore ha bisogno di un luogo pedagogico che lo apra infinitamente, fino a Cristo…

GIUSSANI

Sì. Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.

SICARI

Una realtà che educhi: una comunità? un prete? un’altra coppia di sposi? una persona consacrata?

GIUSSANI

La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo.

Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente: importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.

SICARI

Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa deve offrire esattamente, che cosa deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?

GIUSSANI

Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato «per te» un momento pieno di senso e di sentimento.

In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.

SICARI

Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice «senso religioso». Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?

GIUSSANI

Vedi, già nel volto di colui che svela ai ragazzi il senso e il fine del loro stupore, essi ricevono una certa percezione che quel Dio di cui si parla si è fatto presente, è entrato nella loro storia.

Se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo «testimone» o ministro.

SICARI

Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così «spirituale».

GIUSSANI

Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosi e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel «sacramento» che è l’amore tra uomo e donna.

SICARI

Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?

GIUSSANI

È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti.

D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco.

SICARI

La famiglia dunque educa all’appartenenza e tuttavia anche a un distacco. Ciò è già intensamente visibile nello svolgersi di tutta la vicenda familiare. Mi sembra però che il senso di questo ritmo di appartenenza–distacco sia ancora più profondo di quanto non appaia a prima vista.

GIUSSANI

Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto.

Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona.

SICARI

La famiglia è il primo luogo in cui si coniugano assieme l’idea di libertà e quella di appartenenza. Nel momento fondante, dell’amore, a tutti è evidente che appartenere ed essere liberi non sono due esperienze in contraddizione tra loro, ma tendono anzi ad identificarsi.

Tutti lo constatano nei momenti più «umani» della loro esistenza. Come avviene allora che poi costruiamo un mondo in cui queste due idee, queste due esperienze sono così traumaticamente divaricanti?

GIUSSANI

Ciò avviene perché la libertà tende ad essere identificata con l’istintività, e l’appartenenza tende ad essere identificata con un legame da subire, come prigiona. Ma, nel momento dell’amore, noi tutti sappiamo che la libertà è più grande proprio là dove il possesso e l’essere posseduti sono più intensi. C’è però una condizione intrinseca: che il possedere e l’essere posseduti (la reciproca appartenenza) siano vissuti come aiuto, in funzione del proprio Destino, che è Cristo.

SICARI

Eppure il termine «possesso» evoca subito qualcosa di ripugnante. Tutti sostengono che non si vuole e non si deve essere posseduti. In che senso l’amore al Destino riscatta e rende buona l’esperienza del possesso?

GIUSSANI

Il possesso, attuato o subìto, diventa ripugnante quando è in funzione di un calcolo sulla persona. Mentre l’amore al Destino dell’altro (e in questo amore uno ama anche, indisgiungibilmente, il proprio Destino) permette di congiungere assieme nel modo giusto il possesso e la libertà.

SICARI

Vorrei insistere un po’ su questa strana contraddizione: se c’è un’evidenza naturale che Dio ci ha donato (nel dono stesso della nascita, del nostro esser stati bambini, del nostro aver avuto una famiglia) è proprio questa: che l’appartenenza è una cosa buona e che è proprio essa a rendere possibile la libertà. Che cosa poi interviene a rovinare questa prima evidenza?

L’adulto che dice orgogliosamente: libertà significa «non appartenere», non dipendere da nessuno; appartenere e dipendere sono soltanto umiliazione, schiavitù… Che cosa gli è accaduto?

GIUSSANI

Potremmo vedervi una prova del peccato originale, inteso come ciò che ha reso possibile una tale distorsione. Ma la ragione più immediata è l’ineducazione, anzi la contro– educazione: i doni che ci vengono dalla natura, se non diventano evidenti nelle loro ragioni, restano atrofizzati: vengono usati in modo meschino, fragile, oppure senza nessuna discrezione: subiscono, in ogni caso, violenza.

E questo succede inevitabilmente quando la realtà umana non incontra Cristo: la natura senza Cristo viene anchilosata, si obnubila, si altera.

SICARI

Eppure ci sono famiglie non credenti che manifestano una bella capacità di costruire rapporti veri, legami stabili…

GIUSSANI

Ne ho conosciuto anch’io qualcuna. Ma ho notato che quei rapporti e quei legami si mantenevano sempre dentro certi limiti. Teoricamente ci sono esempi magnifici, ma, se si guarda a fondo, ci sono dei livelli a cui la loro unità non arriva o non resiste. Mancano di completezza.

Comunque resta vero che Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre. Il modo di agire dello Spirito Santo non possiamo esaurirlo o costringerlo; il Signore può far crescere con semplicità e verità anche uomini che non l’hanno conosciuto. Ma quasi sempre c’è in loro un’ultima malinconia, un’ultima incertezza: è come vedere il mare quando c’è stata molta calura, che non si vede bene l’orizzonte.

SICARI

Torniamo a quell’«ineducazione» di cui parlavi…

GIUSSANI

È piuttosto un plagio operato dalla mentalità dominante; un plagio che innesta la sua menzogna sull’ineducazione, e quest’ultima tanto più si dilata quanto più retrocede l’influsso della Chiesa.

Ciò coincide con l’assenza di ragioni, con l’oscurarsi della coscienza, con la sua restrizione. Su questa restrizione poi la società sviluppa il suo potere.

SICARI

È per questo che oggi il potere ha interesse a distruggere i legami familiari stabili?

GIUSSANI

L’interesse del potere è duplice: prima di tutto, distruggendo questa primordiale unità–compagnia dell’uomo, il potere riesce ad avere davanti a sé un uomo isolato: l’uomo solo è senza forza, è privo del senso del destino, privo del senso della sua ultima responsabilità: e si piega facilmente al dettato delle convenienze.

SICARI

Quindi dietro a tutti i cedimenti sociali a riguardo della famiglia (aborto, divorzio, convivenze, permissivismo sessuale ecc.) c’è sempre uno stesso scopo: quello di far dimenticare che libertà e appartenenza sono la stessa cosa…

GIUSSANI

Certamente, perché così l’uomo resta un pezzo di materia, un cittadino anonimo. La famiglia è attaccata per far sì che l’uomo sia più solo, e non abbia tradizioni in modo che non veicoli responsabilmente qualcosa che possa esser scomodo per il potere o che non nasca dal potere.

La seconda ragione, più profonda, è questa: che distruggendo la famiglia si attacca l’ultimo e più forte baluardo che resiste naturalmente alla concezione culturale che il potere introduce, di cui il potere è funzione: vale a dire, intendere la realtà atomisticamente, materialisticamente, una realtà in cui il bene sia l’istinto o il piacere, o meglio ancora il calcolo.

SICARI

Io penso che il problema più grave della Chiesa di oggi stia nel modo in cui molti cristiani concepiscono il rapporto tra natura e soprannatura: o in modo spiritualistico (in cui la fede non c’entra con la vita concreta) o in modo moralistico (la fede c’entra, ma solo come sostegno etico di un progetto naturale).

In ambedue i casi si dimentica l’innesto sostanziale con cui Dio ha legato assieme ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale, in modo indissolubile, in un unico ordine. Ora a me sembra che proprio per questo motivo il futuro della fede si giochi nella famiglia.

Il matrimonio è l’unica realtà naturale che diventa soprannaturale (sacramento) per il solo fatto di essere il gesto di due battezzati. Nel sacramento del matrimonio, il problema del rapporto tra natura e soprannatura è chiarito alla radice: il matrimonio-sacramento è il punto della storia in cui la realtà naturale e quella soprannaturale più perfettamente si innestano l’una nell’altra senza confondersi, in forza del battesimo, in forza della fede.

GIUSSANI

Vuoi dire che proprio là dove la natura più si esprime, più dimostra di essere stata indissolubilmente legata con la soprannatura…

SICARI

Sì, nella famiglia la natura umana si esprime in tutta la sua concretezza: ogni cosa, anche la più materiale (la casa, il lavoro, il cibo…), tutto viene finalizzato e umanizzato. Per questo credere che il matrimonio è un sacramento suggerisce anche un modo totalizzante di considerare il proprio essere cristiano: impedisce alla radice ogni dualismo, ogni falso spiritualismo.

Cosa manca allora nel modo abituale con cui si educano i giovani a capire il sacramento del matrimonio?

GlUSSANI

Manca la fede nella sua vera natura. C’è nel migliore dei casi una preoccupazione morale dignitosa e un vago sentimento di soggezione a Dio. Invece occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante della Incarnazione.

SICARI

È come la prima volta, quando il figlio di Dio ha accettato di incarnarsi nel grembo di una donna che è divenuta «sua Madre», e attorno a questo mistero si è formata una famiglia, una vera famiglia, dove però ognuno poneva in sé il segno della propria identità segreta, misteriosa. Questo segno era la verginità.

Erano «vergini» tutti nella sacra famiglia: Maria, Gesù, Giuseppe: eppure erano veramente, fisicamente legati tra loro. Era un vero matrimonio. Era una vera famiglia. Ma il segno «concreto» della verginità faceva sì che ognuno fosse in rapporto immediato col Padre celeste.

Ognuno a suo modo. Ognuno per un suo compito, per una missione, un destino. Fu questo che realizzò l’esempio più magnifico, il modello per tutti nella Chiesa, sposati o vergini.

GIUSSANI

Quando mi invitano a celebrare le nozze, io spesso chiedo che durante la liturgia venga cantato anche l’inno allo Spirito Santo, perché ogni volta chiediamo un miracolo, come quello della Incarnazione. Chiediamo che Dio prenda e trasformi la natura umana.

SICARI

Proprio qui io credo che si innesti nel modo più autentico la problematica morale. La morale cristiana non è possibile, non è liberante, se non nasce da uno stupore davanti al dono di Dio, se non è risposta umile e generosa alla grandezza del dono che Dio ci fa.

Dunque bisogna prima educare i cristiani allo stupore davanti al miracolo del loro matrimonio. Ma cos’è che fa percepire come buona, percorribile, la concreta legge morale: quella, ad esempio, che governa la vita sessuale?

GIUSSANI

Per amare la morale cristiana e osservarla, bisogna essere coinvolti concretamente nel fatto di Cristo, bisogna che Cristo sia divenuto veramente il Signore di tutti, fino ad amare obbedientemente le leggi che Lui ha messo nella sua creazione. Bisogna che in casa domini Cristo.

SICARI

Eppure è sempre più frequente trovare dei cristiani, anche tra i nostri amici, che sono infastiditi dal fatto che il Papa parli spesso della morale sessuale. Dicono che ormai quelle cose non le capisce più nessuno, e che comunque ormai è necessario insistere su ben altro.

Bisogna appunto rifare l’evangelizzazione, dicono, bisogna ridonare lo stupore davanti a Cristo, e non è più possibile partire dall’etica o insistere subito su questo.

GIUSSANI

Io non sono affatto d’accordo. E per due motivi diversi, anche se legati tra loro. II primo è che il Papa insiste sugli aspetti fondamentali, essenziali per la costruzione di ogni società: il valore della persona, della ragionevolezza, dell’«atto». Si tratta dell’uomo; è la natura dell’uomo che è in gioco in quei problemi sessuali che sembrerebbero così particolari.

Il secondo motivo è che un cristiano, quando riflette sulle indicazioni del Magistero, anche se gli sembra che esso parta da lontano, è costretto subito a ritrovare l’imponenza di Cristo sulla sua vita.

SICARI

Ma è giusto dire che, per una nuova evangelizzazione, è necessario partire non dall’etica ma dall’estetica?

GIUSSANI

Non bisogna semplificare troppo. Proprio questo Papa che spinge alla nuova evangelizzazione parla molto dell’etica sessuale, perché essa tocca ora i punti fondanti, quelli in cui è salvata la dignità stessa della persona umana.

E questo è già un fatto profondamente estetico, perché se è salva la santità della persona, allora lo splendore della presenza di Cristo nel mondo colpisce. La morale, quando tocca i fondamenti dell’esistenza, è l’estetica di ciò che è dato, della creazione, del dono.

Si tratta di rimettere in gioco lo stupore della creazione, la verità della creazione. La moralità rende la persona sintonica al movimento della creazione in cui essa si trova coinvolta; allora rinasce lo splendore della creazione. Lo splendore è là dove la moralità è salvata.

SICARI

Vorrei insistere ancora un po’ su questo, perché lo trovo fondamentale dal punto di vista pedagogico. Si dice: bisogna riproporre il fatto di Cristo, non un’etica.

GIUSSANI

Ma se non si giunge a un’etica, non si comprende il fatto di Cristo. Non si è coinvolti nel fatto, se non si entra nel movimento morale che il fatto implica.

SICARI

A volte però si sente dire, anche da persone autorevoli: se fosse per le indicazioni morali, io non starei nel cristianesimo, perché sarebbe solo addossarsi altri pesi. Ci resto perché mi dà gioia, soddisfa le mie esigenze…

GIUSSANI

Io sto nel cristianesimo perché è la verità; perché riconoscere il fatto di Cristo e la sua presenza mi conviene, mi sospinge, mi attira a cambiare il mio modo di entrare in rapporto con tutte le cose, mi fa diventare più vero fin nei particolari. Incontrando il fatto cristiano, anche il rapporto affettivo diventa più doloroso e più vero: si accetta una maggiore «dolorosità», perché lo si vuole più vero.

Quando una donna vuole bene ad un uomo, se lui viene mandato dalla sua ditta per sei mesi in America, lei l’attende, è tesa a lui, gli resta unita. Il fatto stupefacente del loro amore, della loro unità è dentro la serietà etica della loro reciproca attesa.

SICARI

Vuoi dire che c’è un livello della questione in cui «etica» ed «estetica» coincidono?

GIUSSANI

Io direi che la vera estetica è quella che nasce da un destino percepito come immanente al movimento della realtà. La vera estetica è sempre etica.

SICARI

È, secondo te, importante predicare anche oggi ai fidanzati la castità prematrimoniale, senza sconti o concessioni di alcun tipo?

GIUSSANI

Ma certo! Perché senza verginità non imparano a possedersi veramente: possedere è amare e, nel gesto, cercare e amare il Destino dell’altro. Il gesto dev’essere determinato dal destino dell’altro. Il gesto si fa se è necessario per adempiere il compito che il Destino assegna.

SICARI

Appunto, ci sono perfino preti che sostengono che i gesti intimi dell’amore sono necessari ai fidanzati, per conoscersi meglio, per prepararsi…

GlUSSANI

È un giudizio squallidamente sentimentale. Il dire che si vogliono bene è un artificio. Voler bene è desiderare il Destino, cioè desiderare che Cristo venga. Ma Cristo viene attraverso le circostanze della vita, integralmente rispettate nella loro natura. E la natura del fidanzamento è la promessa, non l’anticipazione furtiva e limitata.

Altrimenti accade proprio quello che dicevamo prima. Dicendo a due fidanzati: «… purché vi vogliate bene!», si separa il Destino dai «fatti». Si sciupa sia il momento estetico che quello etico.

SICARI

Che cosa vuoi dire propriamente che «sposarsi significa assumersi la vocazione dell’altro come propria»?

GIUSSANI

Significa che ognuno dei due sposi non può più realizzare il compito che Dio gli ha affidato (cioè, costruire la Chiesa) se non nell’unità con l’altro.

SICARI

Spesso però accade che uno dei due si sottrae volontariamente a questo servizio ecclesiale. Allora l’altro, che pur lo desidera, come può realizzare la sua vocazione?

GIUSSANI

L’unità non è necessariamente corrispondenza. L’unità è la verità del legame con l’altro; è la fedeltà nonostante tutto. Se penso alla fedeltà di certe donne praticamente abbandonate! …

SICARI

Quando a un coniuge succede di esser proprio, fisicamente, abbandonato, di restar solo, che senso ha ancora la fedeltà?

GIUSSANI

Il senso si può trovare solo scoprendo l’aspetto «verginale» della propria vocazione. Nota bene che questo aspetto era presente anche prima, anche quando il rapporto perdurava. Era già l’essenza del rapporto coniugale. Nella drammaticità ingiusta dell’abbandono, l’aspetto verginale emerge con una evidenza dolorosa, ma comunque capace di essere salvifica.

SICARI

Come spiegheresti meglio questo valore a chi sente soltanto la ferita dell’abbandono?

GIUSSANI

La vocazione è un compito a favore della Chiesa, che Dio ci affida attraverso le circostanze della vita. Ci sono due compiti fondamentali: il matrimonio che ha la funzione di generare nuovi esseri (questo è il suo significato profondo, anche se oggi molti lo vogliono far passare in seconda linea) e la verginità che ha invece la funzione di richiamare tutti alla «forma ideale».

Per questo chi vive veramente il matrimonio cristiano ha una grande stima di chi nella Chiesa incarna la vocazione verginale. Tornando al caso del coniuge abbandonato: accade che, attraverso la contingenza terribile dell’abbandono, uno è chiamato ad andare fino in fondo al valore su cui il suo matrimonio era costruito: l’essere funzione di Cristo per costruire la Chiesa.

Si tratterà allora di vivere l’attesa, apparentemente sterile, con profonda umiltà, accettando una situazione di verginità, che sembra soltanto imposta, in quanto essa non è solo un «incidente», ma chiede di scoprire la salda radice. È su questa «verginità radicale» che bisognerà costruire la propria pace, la propria missionarietà, il dono di sé alla Chiesa.

SICARI

Lo stesso vale per chiunque, pur desiderandolo, non riesce a sposarsi?

GIUSSANI

Sì, le vocazioni non sono tre, anzi la vocazione è unica, quella cristiana con due diverse flessioni. A chi non riesce a sposarsi o non può realizzare un matrimonio, io dico: senti, l’origine di tutto dov’è? È nel nostro desiderio di possedere e di essere posseduti. Ma per chi ama Cristo questo desiderio è segno del rapporto con Lui, sostanzialmente già realizzato e pure sempre da costruire, da esperimentare.

Qualunque cosa accada, qualunque deviazione subisca il nostro desiderio di possedere e di essere posseduti, bisogna attaccarsi alla natura originale di questo desiderio. Solo ciò permette di vivere senza frustrazione il sacrificio di quel legame che risulta storicamente impossibile.

SICARI

Perché la Bibbia e i mistici, quando vogliono parlare del rapporto intimo della creatura con Dio, della «alleanza», usano di preferenza il simbolismo e il linguaggio coniugali?

GIUSSANI

Nel disegno di Dio, nel disegno della creazione, il matrimonio è la «prima» realtà: custodisce naturalmente l’evidenza dell’unità, della passione per l’altro. Ma quando Dio si avvicina, soprattutto quando Cristo viene, Lui personalmente, questa realtà prima diventa seconda, diventa segno, sacramento.

Quando cioè il Mistero dimostra la sua passione per l’uomo, ogni altro appassionato amore diventa un simbolo. Questo i santi lo dicono e lo esperimentano chiaramente. Ecco perché è la verginità a illuminare la verità del matrimonio, e anche chi si sposa è chiamato ad avere quella nostalgia escatologica che si esprime nella verginità.

SICARI

Come vedi tu il mistero della diversità sessuale, per cui l’essere umano concreto esiste solo in una delle due forme possibili (maschile o femminile), come se fosse «metà»?

GIUSSANI

Io penso soprattutto al pacificante mistero dell’unità, alla Trinità. Penso che tutto è segno lontanissimo dell’unione di Cristo con me, con tutti i chiamati, con tutta l’umanità. Penso che questa comune «destinazione» è un’unità che già ora si va realizzando:

«non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù».

Questo è il linguaggio profondo, misterioso di ogni differenza che ancora esperimentiamo. Ed è una cosa fantastica.

SICARI

Vorresti spiegarlo di più?

GIUSSANI

La rivelazione del mistero, che Dio è unità assoluta di persone diverse (Trinità), fa diventare più evidente il Destino dell’uomo, l’origine del Destino. Dobbiamo partecipare a questo mistero, vi siamo coinvolti: noi desideriamo attingerlo con tutto il nostro animo, e tutto dice riferimento ad esso: Cristo, la Chiesa, il matrimonio.

Anzi il matrimonio-sacramento (e la famiglia che ne nasce) è il luogo più quotidiano e abituale che è stato concesso agli uomini per vivere di questo mistero. Nell’unità della famiglia ognuno di noi ha cominciato ad essere costruito come persona.

SICARI

Quello che dici mi fa venire in mente quell’esame di coscienza che Pavese scrisse nel 1936, in cui – dopo una analisi impietosa del proprio fallimento umano – mostra di intuire con una lucidità impressionante come l’incontro con una donna amata gli stava per dare l’insperata ma certa possibilità di rinnovarsi, di salvarsi.

Vorrei chiederti un commento a questo splendido testo. Scrive dunque Pavese:

«Eppure… avevo trovata la via della salvezza. E con tutta la debolezza che c’era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé… Il dono di lei mi alzava all’intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l’esperienza, sono certo di non riuscirci. Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono certo».

È un testo assai triste, perché scritto dopo l’amarezza dell’abbandono e del disinganno. Ma, preso come intuizione di un dono che sarebbe stato possibile, raramente ho visto descritta la vocazione coniugale con una terminologia così biblica, così «sacramentale».

GIUSSANI

È un testo bellissimo che a me ricorda quello ancor più ricco e positivo del Miguel Manara che, a sua volta, descrive poi quello che vedo accadere così spesso nelle nostre comunità: un ragazzo che è una canaglia incontra una certa ragazza, ed ecco che «lei non è come tutte le altre». È una cosa nuova.

E dopo sei mesi la mamma di lui mi viene a dire: «ma sa che il mio ragazzo è cambiato, non è più lui!». È accaduto proprio questo miracolo: lei è diventata l’incarnazione di un richiamo, di un destino: è diventata una vocazione! E se lei, a sua volta, è una creatura totalmente affezionata a Cristo…! Che questo avvenga perché c’è Cristo: ecco la verginità anche nel matrimonio!

Coloro che non si sposano «per amore di Cristo» devono far trasparire questa affezione in ogni rapporto che vivono, con chiunque. Devono essere segno della sua presenza che provoca ogni uomo.

SICARI

Molte nostre famiglie cominciano con un buon impeto ideale, ma poi facilmente scadono nell’abitudine, nella stanchezza, nella noia. Cosa è che impedisce all’ideale del sacramento di diventare esperienza quotidiana?

GIUSSANI

Il fatto che l’impeto ideale spesso non è fondato nella fede. Non accade loro quello che diceva Mounier:

«occorre soffrire perché una verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».

SICARI

Prova invece a descrivere una famiglia «fondata sulla fede».

GIUSSANI

Una coppia cristiana nasce, come tutte le altre, dalla affezione. Ma per due credenti l’affezione è il suggerimento di Dio che dice: «vi voglio insieme». Dunque: che Dio voglia che siamo assieme per affrontare la vita e per camminare assieme verso il destino, questa è l’essenza del perché io ti voglio. In tal caso, la scoperta dei limiti, il rischio dell’abitudinarietà, tutto è sottoposto a vigilanza.

La rovina o la povertà di tanti matrimoni cristiani dipendono da una duplice causa: la prima è che i due non hanno veramente iniziato nella fede. La fede era per loro una intenzione, non un’ascesi, non una «sofferenza» (nel senso di Mounier) che facesse nascere la verità dalla carne. La verità del loro rapporto è quella di partecipare al mistero di Cristo, è di fare la volontà del Padre celeste: ma queste cose sono state sentite come astratte o addirittura ripugnanti.

In secondo luogo, i due hanno continuato a credere che quello che importava era il loro volersi bene. Non hanno pensato che invece era importante il cambiamento del loro volersi bene: convertire l’esperienza del loro volersi bene, scendendo nella profondità del fenomeno, fino a scorgervi la Grazia che vi inabita, e assorbirla.

SICARI

Qual è per una coppia, per una famiglia il test che indica se questo cambiamento è davvero avvenuto?

GIUSSANI

Il test è semplice: che nella loro vita non esiste più l’«obiezione» e, dunque, l’abitudine non logora.

SICARI

Quindi, se due persone dicono: «più il tempo passa, più ci vogliamo bene» è segno che è avvenuta la conversione di cui parli?

GIUSSANI

È un’indicazione, ma ancora imperfetta: bisogna inoltre vedere come questo loro amore si rapporta con la Chiesa. Devono avere coscienza che la loro unità implica tutte le famiglie del mondo; e questo si manifesta con una passione perché tutte le famiglie del mondo conoscano ed amino Cristo. Devono avere cioè una tensione «comunionale» e «missionaria».

SICARI

Non penso che il tuo discorso coincida con quello che attualmente si fa parlando di una «famiglia aperta».

GIUSSANI

Spesso questa è una espressione usata in senso molto moralistico, sociologico, che non tocca la sostanza del rapporto. La sostanza consiste nel fatto che l’apertura sia passione perché il mistero di Cristo faccia diventare una cosa sola tutti gli uomini, tutte le famiglie. È la passione perché Cristo sia conosciuto. È la passione per la Gloria di Cristo. Per le nostre famiglie è essenziale meditare spesso il capitolo 17 del Vangelo di S. Giovanni.

SICARI

Come mai accade a volte che si vive questa passione per far conoscere Cristo, eppure proprio là dove la famiglia abita, nel condominio in cui vive, non succede assolutamente nulla? È un cattivo segno?

GIUSSANI

Il criterio della prossimità è importante. Una famiglia che non senta un richiamo verso chi vive più vicino ad essa non è veramente missionaria, anche se si dedica a un Movimento e alla Chiesa. Manca qualcosa.

Però essere sensibili a un richiamo non vuoi dire che uno sia immediatamente capace di realizzarlo. Spesso la missione verso i «vicini» è la più difficile. Ma il richiamo è costantemente presente, almeno come dolore di non riuscire a realizzare rapporti migliori.

SICARI

A che cosa dovrebbe servire la preghiera in una famiglia?

GIUSSANI

La preghiera è sempre domanda; è la creatura che si esprime come domanda. In una famiglia la preghiera è domanda perché si realizzi quella «funzionalità a Cristo» in vista della quale le persone sono state unite, per cui è stata destata la loro affezione. In una parola: è domanda che avvenga la Gloria di Cristo nel mondo, attraverso la loro esperienza di amore, di unità, di missionarietà.

SICARI

Quali indicazioni pratiche daresti?

GIUSSANI

Io dico sempre due cose: anzitutto che anche nei momenti peggiori, anche se due coniugi si fossero picchiati un momento prima, che dicano sempre una «Ave Maria» alla Madonna, assieme. Anche se si odiano, che la dicano!

In secondo luogo: che si richiamino con l’esempio. Se uno vede l’altro che dice il Rosario, anche se lui è stanco e non ha voglia di dirlo, sente tuttavia un richiamo che gli fa bene. Oppure: uno va a far la Comunione e l’altro no, però è un richiamo.

Anche se non sembra, c’è qualcosa che ogni volta li lega assieme. È sempre «preghiera comune», almeno un po’. Anche la preghiera comune – esplicita – è utile, ma non in modo asfissiante. Non bisogna fare come certi fidanzati che «pregano insieme», però non pregano loro.

SICARI

Parliamo un po’ dei bambini. Incontrando molte coppie di sposi, alcune in crisi, io mi sono convinto che una delle carenze più gravi è questa: trattano i problemi della fedeltà, della indissolubilità del loro legame, come se si trattasse solo di «valori» ideali, di «leggi».

Non hanno mai capito che prima di essere delle «idee» sono dei «fatti»: i figli sono l’indissolubilità vivente della coppia, la fedeltà fatta carne. Dio ha voluto che le «proprietà» essenziali del matrimonio si rendessero evidenti e indiscutibili per due coniugi nella carne dei figli.

Il bambino «giudica» tutte le ideologie, tutti i cedimenti che si fanno sul matrimonio. La fatica ad accogliere i figli, la voglia di averne il meno possibile dipende forse anche dalla incapacità dei due coniugi di stare fino in fondo di fronte al mistero e al significato della propria unità.

GIUSSANI

La difficoltà ad accogliere i figli nasce dal calcolo: se io sono la misura di tutto, allora è giusto misurare anche i figli (non solo nella quantità, ma perfino nella qualità). La fede invece ci dice proprio il contrario: che io non sono mio, ma di un Altro.

Solo da questa persuasione è resa possibile una procreazione responsabile, nella quale entra anche il calcolo, perché la ragione è anche questo. Ma non in modo egoistico. Piuttosto come voglia di «rispondere» nel modo più vero e giusto possibile alle attese di Colui al quale appartengo e per il quale metto al mondo i figli.

Il dialogo dei due coniugi è per dare questa risposta: offrono a Dio la loro unità «creativa», «generosa» (c’entra la parola «generare») e ricevono il figlio che incarna questa stessa unità. Nel figlio saranno uniti per tutta l’eternità in un modo nuovo, irripetibile, diverso da ogni altro; come dicevi tu: una unità fatta carne, fatta persona.

SICARI

Qual è la funzione del perdono nella vita coniugale?

GIUSSANI

Perdonare vuoi dire ridare la possibilità di vivere, ridare il destino, ridare la verità del rapporto. E perciò quel che è accaduto di male (e il ricordo di quel che è accaduto) non è più una ferita, una obiezione, ma un motivo in più per amare.

Nel perdono accade un miracolo: il male diventa bene, perché mi chiede di amare di più e io accetto la sfida. Così il male è divenuto causa di maggior amore. Nel perdono ognuno fa con l’altro ciò che Cristo fa continuamente con lui.

SICARI

Questo significa anche che il matrimonio cristiano ha nell’Eucaristia il suo vero nutrimento …

GIUSSANI

Senza dubbio. Quanto più grande è il compito che ci è dato, quanto più è totalizzante, tanto più assoluto deve essere il rapporto con Cristo. Il matrimonio chiede tutto, è il compito di tutta la vita (non solo in senso temporale, ma anche come intensità), perciò uno ha bisogno di avere una «memoria» altrettanto totalizzante di Cristo.

L’eucaristia è la sorgente e il punto di approdo di questa memoria: Cristo si dà interamente ad ognuno, con tutto se stesso, perfino col suo corpo e col suo sangue. Cristo si sacrifica per fare alleanza con noi. È qui che si impara cosa significa dare se stessi per amore.

SICARI

Cosa suggeriresti a due cristiani che si ritrovano con un matrimonio rovinato, per loro stessa colpa?

GIUSSANI

Cercherei prima di tutto di prenderli separatamente, uno per uno, e di coinvolgerli in una realtà in cui ritrovino il respiro per l’ideale: in una comunità, in una compagnia. La possibilità di rimetterli assieme è tutta nel farli crescere in una fede viva e operosa: se crescono nella fede, si accorgeranno anche dei sacrifici da fare per riscattare il loro sacramento e cominceranno a desiderarlo, anche se fanno fatica.

Altrimenti è un moralismo insopportabile. Una possibilità di ricostruire c’è sempre, se ambedue accettano, in qualunque modo, di crescere. Ma non ci si può abbandonare al caso, sperando che cambino i sentimenti.

SICARI

Tra le persone che io ho conosciuto, tu sei quella che con più passione è capace di parlare della «verginità», di quest’altra vocazione che Dio dona a chi vuole, nella quale l’amore al Destino che è Cristo impregna tutta l’esistenza anche nelle sue modulazioni affettive.

Chi sceglie la verginità «per amore del Regno dei cieli» si rende disponibile a vivere tutti i rapporti con l’unico scopo di affermare in forma affascinante che Cristo è il Signore, che Cristo può essere amato come si ama una persona viva e presente, «qui e ora». Ma capita mai, a te che sei affascinato dal mistero della verginità cristiana, di invidiare qualche coppia ben riuscita di coniugi?

GIUSSANI

Sarei tentato di dire: mai. Ma questo non è giusto. Deve avvenire che un vergine provi una santa invidia davanti a certe coppie di sposi. (Come gli sposi devono prima o poi avere nostalgia della verginità cristiana).

Ma l’unica cosa che mi farebbe «invidia» in due coniugi sarebbe un’unità splendidamente espressa dal loro rapporto: veder significata con più evidenza quella unità totale con Dio, con Cristo, con tutte le persone, a cui tutti tendiamo con infinito desiderio.

SICARI

Quindi, se tu vedessi due persone molto unite tra loro, questo ti…

GIUSSANI

… Questo si tradurrebbe in un impeto di desiderio di essere io più vero in quello che sono.

SICARI

Da cosa si distingue una famiglia «missionaria» da una famiglia che è diventata un nascondiglio, un rifugio?

GIUSSANI

La famiglia–nascondiglio è tutta chiusa nel criterio della «corrispondenza»: ognuno è attento a che l’altro «corrisponda», e se questo non succede la famiglia si infragilisce e le contingenze della vita vengono esasperate.

La famiglia–nascondiglio è una famiglia possessiva in cui il termine ultimo dei rapporti – al di là di tutte le parole – è la giustizia: «mi spetta», «tocca a te». Questo anche senza dirlo: magari uno è generosissimo, però esige che l’altro lo riconosca, e se non lo riconosce lo fa pesare, si lamenta.

Invece la famiglia missionaria è quella che guarda l’orizzonte: guarda tutto l’orizzonte aperto da Cristo e col desiderio lo percorre tutto, mentre con pazienza quotidiana, intelligente costruisce la Chiesa in se stessa e attorno a sé.

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