Il lavoro non è una sfiga (con Pèguy, S.Agostino e Celentano)

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Una persona mi raccontò di trovarsi all’interno di un locale ad osservare i camerieri che andavano frettolosamente avanti e indietro per servire puntualmente i clienti, con non poca fatica.

La sua descrizione rappresentava questo scenario come qualcosa di infernale, con un sentimento di dispiacere per quei poveri lavoratori “costretti” a faticare solo per poter lavorare e portare a casa lo stipendio.

Ciò è frutto di un processo di immedesimazione: «Se in questo momento fossi al suo posto, lo vivrei in modo infernale».

Chi ha stabilito, però, che quella persona sta male, così, a prescindere? E se, invece, stesse bene? Se fosse contento di servire le persone, di raggiungere un obiettivo comune con i colleghi? Se fosse soddisfatto di rendersi utile agli altri e guadagnare soldi per una bella motivazione?

Queste possibilità non furono considerate. Quella persona aveva una visione negativa del lavoro (che purtroppo deriva da una visione negativa della vita in generale), inteso come una cosa “necessaria” per vivere, ma che avremmo evitato volentieri.
Ha concepito il lavoro come quella parte della giornata in cui “sacrificare” la propria vita per un “dovere”, in attesa di tornare finalmente a “vivere” nel dopo lavoro e nel weekend.

In altre parole, il lavoro non sarebbe una parte integrante del “Vivere”, ma solo una spiacevole parentesi da rispettare per un dovere verso la comunità.

Questa, purtroppo in realtà, non era solo l’esperienza di quella specifica persona, ma è oggi ormai una realtà per tutti, come segno di un degrado antropologico ormai totalizzato. Basta parlare con le persone e seguire i social network per notare che tutti non vedono l’ora che arrivi il venerdì sera (l’inizio del weekend) e il giorno più odiato è proprio il lunedì (tranne che per i parrucchieri).

Il lavoro è un peso e il riposo è una distrazione (bisogna “staccare la spina”, come si suol dire). Insomma, non si Vive mai.

La fatica

La fatica nel fare una certa cosa non può essere mai definita o specificata tramite un valore.

Ad esempio, non possiamo dire che per montare un armadio ci vuole una fatica pari a 10. La percezione della fatica dipende strettamente dal senso di ciò che facciamo, dal perché lo facciamo, da cosa ci attende.

Una stessa attività può comportare una fatica di 50 o di zero o essere percepita come una cosa bella, che vogliamo fare, nella quale la fatica – pur presente, anche se enorme – viene integrata da una bellezza che la rende addirittura una fonte vitale dell’esistenza, ciò che ci fa sentire vivi, ciò che dà senso e valore a tutto.

Nella Preghiera della tristezza e della stanchezza, Don Giussani scrive:

Le due grazie che il Signore dona sono:
la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perché mi obbliga alla memoria
E la stanchezza mi obbliga alle ragioni del perché faccio le cose.

Ecco perché la vera sfida non è ridurre la fatica in senso stretto (la stanchezza ci seguirà ovunque), ma accoglierla e ascoltarla perché è una spia che ci indica il bisogno di trovare la ragione di quello che facciamo.

Come scrisse Charles Pèguy (L’Argent, 1913):

Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.
Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza,
una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia
fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia fosse ben fatta.
E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con
la medesima perfezione delle parti che si vedevano.
Secondo lo stesso principio delle cattedrali.
E sono solo io — io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga.
Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione.
Il lavoro stava là. Si lavorava bene.
Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.

La vita è un lavoro e il lavoro è vita

La mia esperienza mi dice che il lavoro si ama quando si ama la vita e ha un senso quando ha un senso la vita.
È, insomma, una parte della vita e da essa dipende. Se tutto ha un senso e uno scopo, il lavoro vi rientra.

Come disse Sant’Agostino:

Quando si ama, non si fatica, o, se si fatica, questa stessa fatica è amata.

Una volta ho fatto il cameriere durante un campo scuola parrocchiale. Con grande spirito di comunità, ci si divideva i compiti. Il mio compito per alcuni giorni fu quello di servire i piatti alla mensa. Andavo avanti e indietro tra i tavoli e la cucina (proprio come l’esempio precedente del cameriere) contento di essere protagonista in quel ruolo. Mi sentivo utile e importante. Mi piaceva sentirmi parte di quella comunità.

Il lavoro è anche in grado di dare esso stesso senso alla vita; scoprire di aver realizzato qualcosa di utile per gli altri con le proprie mani e la propria mente, annullare la noia e provare una sensazione come quella di chi ha ottenuto un risultato sportivo.

Lo sport! Spesso esaltiamo la pur faticosa attività dello sport, senza notare che quest’ultimo non è che una simulazione della vita quotidiana: fare sacrifici, giocare di squadra, vincere o perdere. Questa è vita e il nostro lavoro quotidiano ha bisogno di essere rivitalizzato più che ridotto o alleggerito.

O forse non si è fatto abbastanza caso che la noia, la mancanza di amore e di senso, possono essere ben più faticosi e distruttivi del più pesante degli impieghi.

Il bisbetico domato

Nel film Il bisbetico domato del 1980 viene rappresentata quella “felicità reale” di cui Pasolini parla, nel suo studio sulla rivoluzione antropologica (1974), in questi termini:

La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità «reale». Oggi, questa felicità – con lo Sviluppo – è andata perduta.

“Felicità reale” di persone che si svegliavano prestissimo e si spaccavano la schiena per tutta la giornata. Com’è possibile? – si chiederebbe un qualsiasi cittadino infiacchito e atrofizzato dalla civiltà dei consumi.

In una scena in cui Ornella Muti, vedendosi rifiutate tutte le sue proposte di vacanze lussuose presso le sue proprietà, chiede a Celentano:

Ma voi campagnoli, la vacanza, quando ve la prendete?

Lui risponde:

Vacanza da che? La vacanza si prende da qualcosa che non ti piace, e a me il mio lavoro piace moltissimo.

La genialità di questo film è quella di mostrare il contrasto tra i valori cattolici del mondo contadino paleoindustriale e quelli della borghesia progressista che irrompono in esso per distruggerli. È questo contrasto a determinare in lui il carattere “bisbetico”, antipatico e ribelle.

Ma lui, Celentano, rifiuta i vizi, disprezza le cose fatte per abitudine e l’atrofizzazione del desiderio, resiste ad ogni tentazione, anche quelle più carnali proposte dall’attraente Ornella Muti.

Ed è proprio grazie a questo rifiuto e a questa apertura verso l’alto dei propri desideri, che anche una borghese arricchita, viziata e infelice scopre una “vita nuova”, un innamoramento che la rende disposta improvvisamente ad abbandonare tutti i suoi privilegi per iniziare a lavorare in campagna, abbracciando una vita di fatica che – nonostante ciò – risulterà essere cento volte più bella.

È dalla condivisione di questa fatica (e non del piacere immediato che tutto fa finire e tutto lascia uguale) che nasce quell’amore che sa di eterno, che rende bella la vita e quindi bello anche il lavoro, che sconfigge la repressione consumista e progressista, realizzando quella “felicità reale” di cui tutti abbiamo tremendamente bisogno.

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