Una cosa si salva sull’orrore. La letteratura del 900 dentro la crisi

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Io vorrei cominciare da una frase vecchia di un secolo di un grande intellettuale che si chiama Antonio Gramsci che dice, nei suoi Quaderni del carcere, che il fatto che la scuola si sia staccata dalla vita ha determinato la crisi della scuola e che la partecipazione realmente attiva dell’allievo alla scuola può esistere solo se la scuola è legata alla vita. Un secolo fa Gramsci parlava di crisi della scuola e frattura tra la scuola e la vita.

Sono gli stessi problemi che stiamo vivendo anche noi in questi giorni, perché di crisi della scuola e di crisi in generale a proposito del novecento si è sempre parlato, dal cosiddetto decadentismo, cioè Pirandello, Svevo, Pascoli, D’annunzio, passando per due guerre mondiali, il fascismo, quindi Ungaretti, Montale, Saba, Pavese, Vittorini, Levi, Fenoglio.

Non è mai esistito qualcosa che non fosse crisi

La crisi è un po’ la colonna portante di tutto quell’edificio complesso che è il novecento. Questa constatazione ci avverte subito di quello che è il dato di partenza di questo nostro incontro di oggi: non è mai esistito qualcosa che non fosse crisi, cioè la normalità non esiste.

Noi in questi mesi ripetiamo che stiamo vivendo un momento critico, un momento di crisi e sentiamo dire spesso che non vediamo l’ora che passi presto e che possiamo tornare alla normalità, ma in realtà la normalità non è mai esistita, la normalità non esiste, la vita è crisi, la normalità della vita è crisi.

La normalità di cui parliamo, spesso, è un’illusione di superficie. Chi frequenta la letteratura sa che gli scrittori hanno sempre puntato gli occhi su quanto esula dalla normalità anche in tempi apparentemente non critici. Cioè non hanno avvertito la crisi soltanto durante le guerre mondiali o durante il fascismo, per esempio, ma anche in tempi di Belle Époque, anche in tempi di ricostruzione o di boom economico hanno avvertito la crisi.

Siccome un testo parla sempre a chi lo investe delle proprie domande, un testo si modifica in base alle domande che una generazione, un’epoca, un lettore li pone, allora forse un momento di crisi come quella che noi stiamo vivendo è un angolo di osservazione inedito su tutte le crisi che ci hanno preceduto e perciò ho pensato: una lezione per i maturandi, a marzo, si può strutturare in tanti modi, ci si può soffermare su un autore, su alcuni autori, su una carrellata cronologica.

Ho pensato, invece, dal momento che l’idea era quella di parlare della crisi, di puntare su questo argomento, su questo interrogativo: cosa ha da dire la letteratura quando la vita appare in crisi, cioè appare stagnante, bloccata, ferma, come può essere adesso la vita che stiamo vivendo. In altre parole, come gli scrittori del novecento hanno guardato, hanno descritto la crisi e che cosa ci salva dentro la crisi.

Charles Bukowski

Comincerei dalla fine del novecento, da uno scrittore americano morto nel 1994 che si chiama Charles Bukowski. Vi leggo pochi versi di 30 anni fa che però ci mostrano come, in qualche modo, la poesia possa risultare profetica, almeno come sappia ficcare gli occhi in quelle costanti profonde che sfuggono ai radar delle banalità quotidiane.

Sentite cosa scriveva:

Adesso ci sono computer e ancora più computer,
e presto tutti ne avranno uno,
i bambini di tre anni avranno i computer
e tutti sapranno tutto
di tutti gli altri
molto prima di incontrarli
e così non vorranno più incontrarli.
Nessuno vorrà incontrare più nessun
altro mai più
e saranno tutti
dei reclusi
come me adesso…

Lui è morto nel 1994 quindi non sta parlando della DAD, ma noi ci troviamo esattamente come 30 anni fa nelle nostre zone rosse a rimanere in gabbia e a sentirci perfino comodi. «Nessuno vorrà incontrare più nessun altro». Fa parte della crisi umana che stiamo vivendo, più potente della crisi sanitaria in questo momento.

Italo Svevo e Jacopo Ortis

Se torniamo indietro di un secolo, se andiamo al 1911, c’è una breve favola di Svevo che ci mostra una gabbia in cui però, stranamente, ci si sente a proprio agio.

La porticina della gabbia era rimasta aperta. L’uccellino con lieve balzo fu sull’uscio e da li guardò il vasto mondo prima con un occhio e poi con l’altro. Passò per il suo corpicino il fremito del desiderio dei vasti spazi per cui le sue ali erano fatte. Ma poi pensò: se esco potrebbero chiudere la gabbia ed io resterei fuori, prigioniero. La bestiola rientrò e poco dopo, con soddisfazione, vide rinchiudersi la porticina che suggellava la sua libertà.

Svevo costruisce un singolare paradosso: la libertà fa paura e la libertà è quella che si vive dentro la gabbia, cioè in questa favoletta la prigionia è fuori ed è quello che in qualche modo, in circostanze diverse, stiamo vedendo anche noi.

È difficile leggere questa favola e non pensare al fatto che, per esempio, in Puglia, dove io vivo, quando delle ordinanze regionali hanno chiesto ai ragazzi di scegliere se rientrare in presenza oppure rimanere in DAD, l’84% degli studenti, pur stremato da mesi di DAD, lezioni dietro gli schermi, ha preferito rimanere in gabbia perché quello che c’è fuori fa paura e non è soltanto la paura di ammalarsi. È come se avessimo interiorizzato la distanza che ormai ci fa anche comodo.

Viene in mente quello che Jacopo Ortis pensò di Odoardo che doveva sposare Teresa. Jacopo Ortis diceva: io non odio persona del mondo, ma vi sono certi uomini che ho bisogno di vedere soltanto da lontano.

Forse è quello che tanti studenti pensano dei loro insegnanti e viceversa, e cioè la malattia è più profonda di quanto ci raccontiamo perché può ammalarsi il corpo, ma può ammalarsi anche l’anima, ed è altamente probabile che conti di più la malattia dell’anima.

Di solito infatti viviamo come in un’illusione che la salute sia tutto. Ce lo diciamo, no? «Quando c’è la salute c’è tutto» e “tutto” cosa sarebbe? Sarebbe la cosiddetta normalità, ma la normalità sarebbe il borghesismo di sempre. Noi stiamo rimpiangendo la normalità come se la normalità fosse un Eden perduto e, invece, la normalità era già il problema.

Clemente Rebora e l’infinito anelando

Nel 1955 un grandissimo poeta che si chiama Clemente Rebora descrive che cos’è questa normalità. Dice che quando era bambino:

[…] Un guasto occulto mi minava in basso,
un lutto orlava ogni mio gioire:
l’infinito anelando, udivo intorno
nel traffico o nel chiasso, un dire furbo:
quando c’è la salute c’è tutto;
e intendevan le guance paffute,
nel girotondo di questo mondo.
Ribellante gridava la mia pena:
ho sbagliato pianeta!

Clemente Rebora, Curriculum Vitae

Rebora sente di aver sbagliato pianeta perché è quasi impossibile in questo pianeta trovare qualcuno che veda oltre la superficie. A lui non manca la salute, gli manca l’infinito, ma sembra che non ci sia alcuna fraterna intesa, dirà qualche verso dopo: «le mie braccia tese una fraterna intesa precise cadevano a terra».

Cioè sembra che gli altri avvertano solo un problema: mettersi al sicuro. Come se, a forza di estromettere l’infinito e di pensare alla salute, gli uomini fossero diventati sordi alla mancanza di infinito e si fossero costruiti una sorta di retorica della vita.

Carlo Michelstaedter e il postulato della sicurezza

Uso questa parola perché un altro scrittore del novecento che varrebbe la pena conoscere si chiama Carlo Michelstaedter e nel 1910, nella sua tesi di laurea che si intitola La persuasione e la rettorica, dà luogo a un dialogo assolutamente surreale. Sono due uomini che si parlano:

«[…] Quando indosso l’uniforme vesto anche un’altra persona. Io credo che nell’esercizio delle sue funzioni l’uomo debba esser assolutamente libero. Libero di mente e di spirito. Nell’anticamera del mio ufficio io depongo tutte le mie opinioni personali, i sentimenti, le debolezze umane. Ed entro nel tempio della civiltà a compiere la mia opera col cuore temprato all’oggettività! Allora io sento di portare il mio contributo alla grande opera di civiltà in pro dell’umanità. E in me parlano le sante istituzioni. Dico bene eh?».
«Io ammiro la sua fermezza. – E – lei non pensa ai suoi interessi?».
«Lo stipendio… corre ed è sicuro. E poi, lei sa, gli incerti…».
«Già, già – ma… e poi quando – dio lo tenga lontano – questa sua mirabile fibra sarà affievolita?».
«C’è la pensione: – lo Stato non abbandona i suoi fedeli, – che?».
«Ma – scusi se Le suscito brutte immagini – ma siamo uomini deboli – nel caso di una malattia – sa, ce ne sono tante ora in giro…».
«Niente, niente – appartengo a una cassa per ammalati, come tutti i miei colleghi. Il nostro ospedale ha tutti i comodi moderni e si vien curati secondo le più moderne conquiste della medicina. – Vede?».
«Ah, – vedo! ma – non saprei, i casi son tanti – capisco che siamo difesi dalle leggi – pure – i furti sono all’ordine del giorno».
«Sono assicurato contro il furto».
«Ah! ma… e… metta il caso d’un incendio».
«Assicurato contro il fuoco».
«Perbacco! Ma – un cavallo – scusi, volevo dire: “un automobile” che c’investe; un tegolo…».
«Assicurato contro gli accidenti».
«Ma infine morire – moriamo tutti».
«Fa niente, sono assicurato pel caso di morte».
«Come vede», aggiunse poi trionfante, sorridendo del mio smarrimento, «sono in una botte di ferro, come si suol dire».
Io rimasi senza parole, ma nello smarrimento mi lampeggiò l’idea che il vino prima d’entrar nella botte passò sotto torchio.

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, pp. 139-140

Quest’uomo ottuso, che è il perfetto prodotto di una civiltà che si preoccupa solo di compiere il proprio dovere e non si cura di altro, vive quello che Michelstaedter chiama «il postulato della sicurezza», cioè rispetta un codice di diritti e doveri («io rispetto le regole», «io vado avanti con il programma», «la scuola deve andare avanti»).

1910: è già un mondo in cui le persone si preoccupano della vita – dice Michelstaedter – come se la vita avesse già valore, quella che Michelstaedter chiama «sufficienza», cioè come se il valore della vita fosse già nel fatto che uno vive, fosse già – per esempio – nel fare lezione come se il fare lezione fosse già sufficiente a dire che la vita sta andando avanti.

Sono individui ridotti e meccanismi che avvertono un solo pericolo, il proprio simile e, invece, chi infrange la convenzione, chi non pensa che la vita sia già sufficiente a se stessa, chi pensa che la vita, invece, sia mancante di qualcosa, chi sente di aver sbagliato pianeta in questa vita di gente a posto, è pericoloso come se fosse un untore manzoniano che rompe il comodo su cui si fonda la vita, questa vita in gabbia.

Mi viene in mente un romanzo del 1989 di Murakami che si chiama Norwegian wood in cui ci sono tanti ragazzi che spariscono, che soffrono, che si ammazzano, ma non c’è nessun adulto, non ci sono adulti, ed è un po’ quello che tutto il novecento descrive: un’assenza clamorosa di padre, un’orfanità.

Giorgio Caproni e la tradizione che non sostiene più l’uomo

C’è un’immagine classica che risale niente meno che a Virgilio, all’Eneide, e che insospettabilmente torna a cogliere il cuore della tragedia del nostro tempo. Uno dei più grandi poeti del novecento si chiama Giorgio Caproni.

Scusate se vi sto citando anche poeti un po’ fuori dal canone: Caproni, Michelstaedter, Rebora. È un modo per suggerirvi di dire agli insegnanti di non preoccuparsi se non finiscono i programmi, tanto, possono correre quanto vogliono, ne rimangono fuori tantissimi, quindi non c’è fretta.

Comunque Giorgio Caproni dice: ricordate quella scena memorabile dell’Eneide in cui Enea fugge da Troia in fiamme e si carica suo padre sulle spalle e tiene Ascanio, suo figlio, per mano. Caproni dice che noi in questo tempo siamo come Enea.

Il mio Enea ha poco a che fare con quello di Virgilio. A Genova, in piazza bandiera, mi colpì durante la guerra il monumento a Enea che là si trova. Enea che fuggito dall’incendio di Troia era venuto a capitare proprio nella piazza più bombardata della città.

Cioè Enea non è soltanto un eroe di un vecchio libro di due millenni prima. Caproni, guardando quella statua alla fine della seconda guerra mondiale, pensa ad Enea non eroe, ma uomo.

Enea non eroe ma uomo, che cerca di trarre in salvo, sulle spalle, un passato che crolla da tutte le parti (il padre Anchise) e per la mano un futuro (il figlioletto Ascanio) che ancora non si regge dritto. L’uomo colto nella sua più assoluta solitudine, simbolo, per me, dell’uomo di quegli anni, e forse non soltanto di quelli, se ancora oggi ci troviamo soli di fronte a una tradizione che sta per sgretolarsi e una speranza che non riesce a prendere consistenza. [1980]

Giorgio Caproni, Il mio Enea, Garzanti, Milano 2020, p. 135

Sono parole del 1980 su cui Caproni è ritornato spesso fin da dopo la seconda guerra mondiale perché per lui l’uomo, incarnato da Enea, simboleggiato da Enea, è solo sulla terra con sulle spalle questa tradizione che tenta di sostenere e dovrebbe essere il contrario.

La tradizione non sostiene più l’uomo, crolla da tutte le parti, mentre per la mano l’uomo ha una speranza che è ancora troppo piccola, come un bambino, è troppo vacillante per potercisi appoggiare, tuttavia l’uomo deve portarla a salvamento, dice Caproni.

Ora quale tradizione il novecento ci ha consegnato e quale speranza possiamo portare per mano? A quanto pare il novecento ha documentato quello che anche noi stiamo ereditando, cioè la latitanza della tradizione, la latitanza degli adulti, una scuola che, anziché sorreggerci, ha bisogno lei di essere sorretta. Va avanti con spiegazione-interrogazione, spiegazione-interrogazione, e fa l’effetto che racconta nel 1960 un altro gigante – anche questo fuori dai canoni – che però vale la pena conoscere, si chiama Alberto Moravia.

Alberto Moravia e la noia

In un suo romanzo intitolato La noia dice all’inizio, proprio nel l’incipit:

«La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappetti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere.
Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. […]

Sembra che la realtà non esiste, infatti, dirà Moravia:

«Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso di mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altri simili cause; un po’ come il malumore dei bimbi più piccoli viene attribuito allo spuntare dei denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”; spiegando così, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia affermazione, si chinava ad abbracciarmi e poi mi prometteva di portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un divertimento che, come sapevo ormai benissimo, non era il contrario della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo di accogliere con gioia la proposta, non potevo fare a meno di provare quello stesso sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva balenare come un miraggio davanti agli occhi. Anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, infatti, io non avevo alcun rapporto in quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità.»

Mi fermo perché è tutto interessante. Racconta come, per esempio, durante l’adolescenza tutte le insufficienze scolastiche fossero dovute non tanto a un’incapacità in questo o in quell’altra materia, ma a quel malessere per cui lui sentiva che i re ateniesi, gli endecasillabi di Dante, le operazioni algebriche o le formule chimiche, non lo riguardavano.

Ora io sto leggendo questi testi vari per documentare che, in epoche diverse, la letteratura ha sempre fatto i conti con una malattia che non era soltanto una malattia fisica, ma era molto di più e ha documentato giornate che si ripetono tutti uguali.

Pavese e l’anima dell’uomo che non si arrende

Penso a una poesia di Giovanni Giudici che si intitola Una sera come tante o alla stupenda poesia di Pavese che si intitola Lo steddazzu, in cui un uomo si sveglia e sa che sta per cominciare una giornata in cui non accadrà nulla, assolutamente nulla, e non c’è niente di più amaro:

L’uomo solo si leva che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

[9-12 gennaio 1936]

L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire perché non ha nessuno per cui valga la pena alzarsi dal letto. Siamo nel 1936, Pavese è stato confinato, accusato di antifascismo, ma attenti alla natura della poesia perché, evidentemente, se un uomo solo all’alba avverte questa amarezza, alla fioca luce dell’ultima stella che sta per spegnersi al mattino, Lo Steddazzu (in calabrese, Pavese era confinato a Brancaleone Calabro), vuol dire che quell’uomo solo non è ancora rassegnato alla sua amarezza, non è ancora inghiottito dalla notte, cioè non è diventato un esecutore senz’anima del suo dovere quotidiano, non è uno che si alza e si collega alla lezione, non è uno che che timbra il cartellino.

Avverte la notte, avverte l’amarezza di un’alba in cui nulla accadrà e questa stella che non si spegne è la poesia, cioè è l’anima dell’uomo che non si arrende.

Leopardi e la domanda di senso

Tutti spero ricorderete come inizia il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi, con la luna che fa sempre lo stesso percorso la cui vita somiglia alla vita del pastore che «sorge in sul primo albore / move la greggia oltre pel campo, e vede / greggi, fontane ed erbe».

Cioè ogni giorno è sempre la stessa vita. Cosa rompe il meccanismo infinito, l’eterno ripetersi del ciclo lunare o del ciclo della giornata umana (5 ore di DAD, 5 materie per il giorno dopo, 5 ore di DAD, 5 materie per il giorno dopo…), cosa rompe questa monotonia? La domanda di senso.

Il pastore errante che chiede: a che vale la mia vita? Ove tende? Ed è domanda di senso, cioè la domanda sul perché. Il pastore errante chiederà alla luna il perché delle cose, perché ci sia questo scolorar del sembiante, “perché” e non “come”! Un conto è chiedere come si diffonde il Covid, un altro conto è chiedere perché esiste il Covid, perché la malattia, non come funziona questa malattia ma perché.

Non il come, ma il perché

La poesia, da Leopardi a Rebora, non ha mai smesso di chiedere non come è morta Silvia, ma perché muore Silvia. Ve lo faccio leggere ancora da questo gigante del novecento che si chiama Clemente Rebora:

[…] Perché l’insidia
Se vivere è fiducia,
Perché la colpa
Se vivere è bellezza,
Perché l’angoscia
Se vivere è conquista,
Perché la morte,
Se vivere è promessa? […]

Clemente Rebora, Frammenti lirici

Non sono domande da psicologi

La domanda del perché è la domanda dell’uomo metafisico, non è la domanda dell’uomo fisiologico. È la domanda dell’uomo la cui vita non è sufficiente a se stessa, non è soltanto l’esecuzione di un dovere, ma la cui vita è una tensione incompiuta.

Non sono domande da psicologi. Io quando mi accorgo ogni giorno che stiamo vivendo una tragedia umana e non solo sanitaria, non intendo dire soltanto che c’è una tragedia psicologica, oltre che sanitaria, perché i greci chiamavano psyché non la psicologia, chiamavano psyché l’anima.

Cioè queste domande sono domande metafisiche, non sono domande da psicologi. Sono domande metafisiche, cioè sono domande da uomini, sono domande da amici, da poeti, da Dio. Non sono domande che si rivolgono a meccanismi inceppati, come a fine 800 presumerà una certa illusione scientista di poter raccontare.

L’uomo ha sempre avvertito – penso a Leopardi – di vivere in una sorta di stanza. Nel Canto notturno Leopardi chiama il mondo “stanza”, anche il mondo è troppo poco. La vita è una sorta di delirio di immobilità – direbbe Montale. L’uomo non cerca soltanto di uscire dalla crisi, ma di coglierne il senso, anche se la domanda di senso appare clandestina da molti decenni.

Montale e la denuncia del disinteresse per il senso della vita

Nel ’72 Eugenio Montale scriveva:

Quello che avviene nel mondo cosi detto civile a partire dalla fine dell’illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è il totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta col darsi daffare, anzi. Si riempie il vuoto con l’inutile. Il mondo muore di noia, l’impiego del tempo è letteralmente spaventoso.

Cioè si pensa che impiegare il tempo sia una risposta alla noia, che il divertimento – come diceva Moravia – sia una risposta alla noia. Ma:

I giovani che si agitano un po’ dovunque non se ne rendono forse conto, ma il loro vero problema non è né sociale né economico. A loro non interessa più nulla, ecco il fatto. Immetteteli in una società più giusta, meglio pianificata, riempiteli di lauree e di diplomi, trovate per tutti un buon impiego e molto tempo libero, e il risultato sarà sempre lo stesso: una noia sempre crescente senza nemmeno più il conforto-sconforto dell’angoscia. Abbiamo provveduto noi anziani, noi balordi aruspici dei vari futuribili, a svuotarli di tutto. Non ci possono ringraziare, questo è certo.

Eugenio Montale, Trentadue variazioni [1972]

Sembra che le premesse su cui si fonda il nostro tempo siano queste qui, il totale disinteresse per il senso della vita, e gli uomini sono rimasti buoni, ligi, pieni di lauree e pieni di diplomi, ma senza più il conforto-sconforto dell’angoscia, cioè impauriti dall’angoscia, incapaci di guardare in faccia la crisi, la malattia in cui la vita consiste, perché questa malattia è come annebbiata, come soffocata dall’illusione, invece, di star bene.

Pascoli e i due orfani

Ricorda un po’ la poesia dei primi poemetti di Pascoli che si chiama I due orfani in cui ci sono questi due ragazzini rimasti orfani che ricordano quando c’era la mamma che li perdonava e il sentimento che domina è la paura, qualsiasi rumore fa paura, che è il sentimento dominante anche nel nostro tempo.

Ad un certo punto i due orfani si dicono che noi siamo ora più buoni, cioè noi, adesso che la mamma non c’è, siamo più buoni, ora che non c’è più chi ci perdoni. E che cosa se ne fanno della bontà, dell’essere diventati buoni, se non c’è più chi li perdoni?

Perché la vita a quel punto diventa una specie di delirio di immobilità (per usare l’espressione di Montale) in cui ci troviamo – pensate alla prima poesia negli Ossi di seppia che si chiama In limine – in un orto che in realtà faremmo meglio a chiamare un reliquiario, cioè siamo in una specie di recinto in cui non entra mai l’ondata della vita.

E invece dall’altra parte del muro esiste la vita, dall’altra parte degli schermi, dall’altra parte della siepe, esiste qualcosa di più significativo, esiste una barca di salvezza – dice Montale – e perciò cosa cerca l’uomo che avverte la crisi, l’uomo che avverte la “disarmonia” (così la chiama Montale)?

Montale e il delirio di immobilità

L’uomo che avverte la crisi o la disarmonia cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe. Sarà mai possibile scavalcarla, questa muraglia, e passare dall’altra parte del muro? Una poesia famosissima di Montale del 1916 dice:

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

La vita sembra un seguitare una muraglia, ogni giorno ci si alza e si continua a seguitare una muraglia, senza mai riuscire a scavalcarla, perché in cima ci sono cocci aguzzi di bottiglia. Non sembra esserci quella maglia rotta, quel varco che ci permetterebbe di accedere a un’altra vita, all’impossibile –  come la chiama in un’intervista del ’65 Montale che dice:

Sono un poeta che ha scritto un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile. Nella mia poesia c’è il desiderio di interrogare la vita. Agli inizi ero scettico, influenzato da Schopenhauer. Ma nei miei versi della maturità ho tentato di sperare, di battere al nuovo, di vedere ciò che poteva esserci dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci sfugge.

Eugenio Montale, intervista alla «Gazette de Lausanne», 1965

Ed è quando ci sfugge il significato che la vita diventa male, che la vita divenuta critica, malata, che la vita diventa quel delirio di immobilità descritto nella poesia Arsenio:

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento dalle nubi, fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità… […]

«Immoto andare», «delirio di immobilità», sono parole che raccontano perfettamente cos’è la vita umana e quello che sembra salvarci in questo delirio di immobilità si rivela un prodigio fallito, scrive Montale, nella poesia successiva che si intitola Crisalide:

Ah crisalide, com’è amara questa
tortura senza nome che ci volve
e ci porta lontani – e poi non restano
neppure le nostre orme sulla polvere;
e noi andremo innanzi senza smuovere
un sasso solo della gran muraglia;
e forse tutto è fisso, tutto è scritto,
e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!

Eugenio Montale, Crisalide

Forse non ci succederà questa fortuna di vedere il miracolo, cioè qualcosa che ci salvi, che rompa questa grande muraglia. Cosa ci può salvare se torna sempre l’amarezza dell’eterna ripetizione dell’identico, se non restano neppure le nostre orme sulla polvere? Cosa ci può salvare?

Io quando mi collego in DAD e vedo le facce spente so di dover ringraziare anche questi miei amici scrittori se me le fanno notare, se mi hanno regalato degli occhi per accorgermi degli occhi spenti, e questi amici scrittori mi hanno anche liberato da alcune false illusioni, per esempio l’illusione che basti uscire un po’.

Clemente Rebora: il dolore non basta e l’amore non viene

Sentite ancora Clemente Rebora, poesia ambientata a marzo, c’è una persona che studia tra quattro mura mentre fuori esplode la primavera.

Marzo lucendo nell’aria
Con vena sottile rinnova
L’esangue terra invernale
E come occhio di bimbo
Tutto s’apre a guardare,
E dà i riccioli al vento.
Che val, primavera, con spire
Irrequiete turbare
L’inerte mia spoglia?
Fra quattro mura di libri e d’ombre,
Sopra pagine ingombre,
L’amabil giovinezza
Qui s’infosca e si spezza,
L’amabil giovinezza
Che tranne sé
Non ha chi non conosca;
Che val, primavera, con avida
Gioia invitare il mio senso
All’ebbrezza del sole e del vento?
Dall’incessante via
Una canzone appassionata esulta,
E un rider sento d’uomini e di donne
Che nel lavoro preparan le voglie:
Dalle pagine ingombre, ottenebrato
Il mio volto s’alza a chiedere
La verità della vita
Che l’àttimo contrasta
E il dolor solo accoglie.
Ma il dolore non basta
E l’amore non viene.

Questo ragazzo che studia sente il richiamo della primavera fuori, alza gli occhi, ma sembra che l’attimo contrasti questo suo movimento verso l’alto e ne è addolorato, ma il dolore non basta e l’amore non viene. Cosa possiamo fare noi per cambiare questa vita che non cambia mai, questa vita tutta uguale?

Pirandello e il cambiamento inutile delle circostanze esterne

Luigi Pirandello ha raccontato ne Il fu Mattia Pascal di un uomo bloccato anche lui nell’immobilità di una biblioteca, che quando non ce la faceva più, quando la testa gli fumava, andava a mare e pensava – lasciandosi scivolare la sabbia tra le dita – che la vita è sempre così, fino alla morte, senza mai nessun mutamento.

E poi camminando sulla riva del mare sentiva talmente forte l’inutilità delle sue domande che, mentre le onde gli bagnavano le scarpe, per lui era come se il mare dicesse: lo vedi cosa si guadagna a chiedersi certi perché? Ti bagni solo i piedi, ti bagni le scarpe, e non hai soldi per comprarti altre scarpe. Davanti alla sua domanda: ma perché la vita non cambia mai?

Come sapete lui provò a cambiare la vita perché ne ebbe l’occasione, avendo vinto al casinò e sfruttando un malinteso per cui lo credevano morto. Lui decise di cambiare vita, cambiando le circostanze esterne, ossia cambiando nome, cambiando look, perché lui sperava semplicemente che tutto finisse e poi finalmente non aveva più moglie, non aveva più suocere, non aveva più debiti.

Ad un certo punto ha sentito che, essendo le circostanze esterne talmente diverse, poteva rifarsi una vita, poteva essere libero, come noi sentiamo che un giorno il Covid finirà e saremo liberi. E di cosa si è accorto dopo, quando ha potuto cambiare le circostanze esterne?

Che quella che chiamavano “libertà”, in realtà, avrebbe dovuto chiamarsi “solitudine” e “noia” perché non era cambiato niente. Dopo un po’ le circostanze cambiate avevano rivelato gli stessi problemi di sempre.

Duemila anni fa Orazio scriveva che Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt. Cambiano cielo, non cambiano cuore, quelli che vanno dall’altra parte del mare. Tu non puoi sfuggire da te stesso, puoi cambiare posto ma non puoi strapparti di dosso te stesso. Lo diceva anche Lucrezio: il tuo io ti sta sempre addosso, ti segue, non lo puoi cacciare via.

Eppure quando Pirandello scriveva Il fu Mattia Pascal, nel 1904, tutti credevano di star bene. Cioè l’idea generale era che non ci fosse alcuna crisi, l’idea era che gli uomini fossero liberi, assolutamente liberi, eravamo prima della grande guerra e sembrava che la scienza potesse dare una svolta alla vita, – diremmo oggi – che i vaccini potessero risolvere la vita.

Il treno ha fischiato

Non so se riconoscete questo famoso incipit:

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
– Frenesia, frenesia.
– Encefalite.
– Infiammazione della membrana.
– Febbre cerebrale.

È l’inizio de Il treno ha fischiato.

Il treno ha fischiato comincia con questi termini scientifici che sono usati dai colleghi di Belluca. Sono impiegati d’ufficio eppure sembrano improvvisamente diventati tutti dottori, come noi che ripetiamo i termini che sentiamo dai virologi.

Tutti credono che è impazzito perché Belluca non è più un esecutore dei suoi doveri: si è presentato in ufficio in ritardo, non ha più svolto il suo compito, non è più stato sottomesso al capufficio, e tutti dicono: è impazzito!

Soltanto uno, che è la voce narrante, ricorre a un’altra interpretazione: secondo lui, invece, esiste una spiegazione naturalissima, a patto però di conoscere – dice lui – la vita di Belluca, cioè di conoscere la vita impossibile di Belluca che è una vita circoscritta e perciò impossibile. Cosa ne sanno i colleghi di Belluca? Cosa ne sanno i tuoi compagni di classe di che cosa significa vivere a casa tua?

Se rileggete quella novella vedete che la differenza tra l’interpretazione comune e quella della voce narrante è che la voce narrante si mette a conoscere, non si lascia abbindolare dai termini scientifici «frenesia», «infiammazione della membrana», «febbre cerebrale», ma vuole conoscere quell’uomo concreto che è Belluca e conoscendolo – tra l’altro è quello che giustamente viene chiamato «l’umorismo di Pirandello», cioè il sentimento del contrario, la riflessione sulla vita reale di Belluca – inizia a pensare che quella vita era totalmente impossibile da vivere perché lui si era dimenticato, ma proprio dimenticato, che il mondo esisteva, ma qualcosa esiste oltre le solite quattro mura, oltre il solito schermo, qualcosa esiste oltre la prigionia.

Lucio Dalla: La casa in riva al mare

Io sono innamorato di una canzone di Lucio Dalla che si chiama La casa in riva al mare. Qualcosa esiste oltre la cella. Oltre la cella quel carcerato vedeva il mare ad una casa bianca in mezzo al blu e immaginava di poter un giorno uscire e sposare quella donna di cui, evidentemente, non sapeva neanche il nome, che lui chiamava Maria.

La vita è malata quando ha un orizzonte minuscolo, quando la siepe non richiama più nessuno infinito, quando si pensa che basti allargare un po’ la siepe, basti spostarla un po’ più in là.

Italo Svevo: i dottori non ne sanno niente.

Perciò i dottori non ne sanno niente. Perciò questa malattia non è una malattia da dottori. I dottori non ne sanno niente. Ricordate La coscienza di Zeno di Italo Svevo? Chi è veramente malato, Zeno oppure il dottor S.? In realtà il vero malato è il dottor S. perché a suo avviso, con qualche seduta psicanalitica, la vita potrebbe cambiare.

Naturalmente – dice in conclusione Svevo:

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.

Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Conclusione

E allora che cosa c’è nell’uomo malato, nell’uomo che si accorge che la vita è una malattia e non si può far finta di essere sani perché, tra l’altro, solo i malati sanno qualcosa di loro stessi. Chi crede di essere sano, invece, non si guarda mai allo specchio. Cosa c’è nell’uomo malato?

Ungaretti: non sono mai stato tanto attaccato alla vita

Faccio un esempio. Ungaretti ha raccontato che la sua poesia è nata in trincea. Cosa ha scoperto facendo il soldato durante la prima guerra mondiale? Che c’era la guerra e c’era qualcosa che era – scrive lui – molto più importante della guerra, cioè loro sentivano nascere nel cuore qualcosa di insolito: l’affetto, l’amore l’uno per l’altro.

E si sentivano così piccoli come erano di fronte al pericolo eppure si sentivano – scrive Ungaretti – così disarmati pur con tutte le loro armi. Insomma si sentivano fratelli. La guerra è qualcosa che è più grande della guerra.

Cima quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto lettere
piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Questa poesia si intitola Veglia. È scritta a Natale del 1915. Un Natale evidentemente tragico, in cui Ungaretti non si trovava a casa sua, ma si trova sperduto a Cima quattro.

Che cos’è che veglia nella notte, come si possono scrivere lettere piene d’amore mentre muore un amico accanto a noi? Cos’è che veglia? Veglia questo attaccamento alla vita che non è puro istinto di conservazione, non è soltanto paura di morire, non è soltanto una difesa. È appunto un attacco, un attaccamento alla vita.

In questi mesi penso sempre a una geniale frase di Jannacci, in quella canzone che si intitola Quelli che, quando lui parla di quelli che fanno una vita da malati per morire da sani.

Perché bramo Dio?

Non è l’istinto di conservazione, non è la paura di morire quella di Ungaretti. È proprio l’attaccamento alla vita. Come si fa a scrivere lettere piene d’amore mentre ti sta morendo accanto un amico? Come si fa quando si è coscientemente chiusi tra cose mortali, come scrive in Dannazione, a desiderare Dio.

Dannazione
Mariano il 29 giugno 1916

Chiuso fra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?

Com’è possibile che tutto finisce, anche il cielo stellato, che è il più grande simbolo dell’infinito, finisce pure lui. Allora come mai nasce in me questa domanda di Dio? Questa domanda di qualcosa che non finisca, di qualcuno che abbracci.

Questa è la veglia nella notte. Questa è la domanda di senso, anche se tutto intorno a me è assurdo, ma questa domanda di senso si salva appunto dall’orrore. Questa ribellione alla propria fragilità, questa scoperta clamorosa di avere accanto dei fratelli. Questi uomini che si scoprono fragili, ma anche fratelli.

Fragilità e fratelli

C’è un’altra poesia che si intitola Fratelli in cui Ungaretti gioca con queste due parole allitteranti: chiuderà la poesia con la parola fragilità e poi con la parola fratelli. La poesia non parla solo attraverso il suo contenuto, ma anche attraverso la sua forma – diciamo così.

Fragilità e fratelli. L’allitterazione fa capire che due persone o dieci persone o cento persone si scoprono fratelli quando si riconoscono fragili. Il fratello non è quello che risolve la fragilità dell’altro, ma sono fratelli gli uomini che la guardano in faccia, la loro fragilità.

Io non sto nella pelle su questo: con tutta la ricchezza della letteratura, noi, è come se non avessimo una tradizione alle spalle, come se, paradossalmente, tutta la fatica che facciamo, di stare incollati agli schermi per fare lezione, ma ci sta consegnando una tradizione che ci aiuta a vivere questo momento, ad avere una speranza in questo momento? Oppure questa tradizione non ci sorregge più e dobbiamo sorreggerla noi?

Guareschi: dentro c’è qualcosa che ci salva

Se io penso a come Guareschi ha vissuto il campo di concentramento: «non muoio neanche se mi ammazzano». Se potete leggete almeno il Diario clandestino di Guareschi, nel campo di concentramento.

L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno.
E questa è una fregatura per te, signora Germania.

Giovanni Guareschi, Diario clandestino

Sono in un campo di concentramento ma non sono tuo, signora Germania, perché dentro c’è qualcosa che si salva.

Pavese: quando scordiamo che la vita è comunione

Il titolo di stasera nasce da una scoperta, alla fine della seconda guerra mondiale, di Cesare Pavese, quando lui scrive:

[…] Andremo se mai verso l’uomo. Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri. […]
Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore [ndr pensate avevano vissuto cinque anni di guerra mondiale] ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo.
Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sguardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci del precipizio. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere.

Ma ci accorgiamo che è quello che ogni mattina può accadere in DAD se abbiamo degli occhi che se ne accorgono?

Molte barriere, molte stupide muraglie sono cadute in questi giorni. Anche per noi, che già da tempo ubbidivano all’inconscia supplica di ogni presenza umana, fu uno stupore sentirci investire, sommergere da tanta ricchezza. Davvero l’uomo, in quanto ha di più vivo, si è svelato, e adesso attende che noialtri, cui tocca, sappiamo comprendere e parlare.
Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. […]
Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione.

Ritorno all’uomo. Questo si salva, questo è il nostro compito. Sembra incredibile, ma a volte ho paura che un anno di pandemia non ci abbia resi più aperti all’uomo, più aperti nei rapporti. Mi ha fatto venire il mal di stomaco un’indagine Ipsos in cui, alla domanda se un anno di DAD abbia avuto conseguenze negative sullo stato d’animo, molti hanno risposto di sì e, quando hanno chiesto con chi ne hai parlato, il 22% di quelli che stanno male hanno detto «con nessuno» e tra quelli che ne hanno parlato solo l’8% dice di averne parlato con un proprio insegnante. Cioè un anno di DAD e 92 su 100 che stanno male non ne hanno mai parlato con l’insegnante.

Questa è la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo.

Chiudo con l’ultimissima questione. Cosa succede quando, anziché aprirci, non ci accorgiamo nemmeno che sia quella la crosta da rompere, cioè la solitudine? Succede che la vita si blocca. E cosa accade quando tutta la tradizione si sgretola, quando manca questa apertura, quando non la riscontriamo più?

McCarthy: noi portiamo il fuoco

C’è un romanzo americano del 2006 di Cormac McCarthy, che si intitola La strada, in cui un padre e un figlio dentro l’Apocalisse si dicono:

Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.

Ma che fuoco portano, se nel mondo il fuoco non c’è più? Se non c’è più nessuna apertura dell’uomo verso l’uomo, ma vige la legge della giungla? In cui, addirittura, ci sono i cannibali, sono rimasti pochissimi uomini sulla terra, nel romanzo l’uomo deve stare attento a non farsi mangiare dall’altro uomo.

Come in DAD, bisogna fare la gara a chi non si fa fregare, no? I professori che ti bendano, ti dicono «inquadrami il compito», allora tu che ne cerchi un’altra, sembra appunto la legge della giungla. E il bambino di questo romanzo dice al padre:

Dimmelo, forza.
Noi non mangeremo mai nessuno, vero?
No. Certo che no.
Neanche se stessimo morendo di fame?
Stiamo già morendo di fame.
Hai detto che non era così.
Ho detto che non stavamo morendo. Non che non stavamo morendo di fame.
Ma comunque non mangeremmo le persone.
No. Non le mangeremmo.
Per niente al mondo.
NO. Per niente al mondo.
Perché noi siamo i buoni.
Sì.
E portiamo il fuoco.
E portiamo il fuoco. Sì.
Ok.

Noi portiamo il fuoco, cioè quello che si salva nell’orrore è che c’è un fuoco che non è fuori, non è nel cambiamento delle circostanze esteriori, ma c’è un fuoco dentro.

Quindi è vero che l’uomo ha bisogno di altri, ma non di altri qualsiasi, di altri cannibali, per esempio. Ha bisogno di altri che accendono il fuoco, altrimenti una pioggerellina lo spegne.

C’è Lucia, per quello il suo fuoco non si è spento.

Ad insegnarci questo fuoco è uno che 400 anni fa ha vissuto proprio la peste ed è Renzo ne I Promessi sposi che nel penultimo capitolo, quando finalmente, dopo mille guai, può sposarsi. Lucia nel lazzaretto gli ha detto che possono sposarsi.

Si fa chilometri di notte dal lazzaretto fino al suo paese e quando la mattina dopo arriva inzuppato fradicio, ma non gliene importa niente perché è l’uomo peggio conciato è più contento della terra (così dice Manzoni).

Alla domanda del suo amico che lo ospita, che lo vede arrivare stremato, completamente inzuppato, gli dice «come va?». Renzo, anziché imprecare, anziché dire: tutto a me, guarda: Don Rodrigo, Don Abbondio, l’Azzeccagarbugli, il rapimento, la Monaca di Monza, l’arresto, Milano, i lanzichenecchi, la peste, il voto di castità, pure la grandine!

Anziché bestemmiare, alla domanda «come va?» dà una sola risposta: là c’è! là c’è! là c’è! C’è Lucia, per quello il suo fuoco non si è spento. Tant’è che penso sia la frase più bella da leggere in questo periodo; dopo due anni da quando doveva celebrarsi quel matrimonio, si incontrano finalmente Don Abbondio e Renzo e Don Abbondio dice:

«Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!»
«C’è o non c’è?».
«Non c’è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempi?»
«Se non fosse altro che la peste in questo mondo… dico per me: l’ho avuta, e son franco».

Non c’è solo la peste a questo mondo. C’è una cosa oltre la peste. C’è una cosa che si salva dall’orrore e sono uomini che portano il fuoco. Come mai ancora tutto quel fuoco addosso? Don Abbondio non lo può capire. Come fa Renzo ad essere così? Perché là c’è. Perché c’è qualcuno – nel suo caso Lucia – che quel fuoco lo riaccende.

Risposta alle domande

Come la letteratura mette a fuoco la domanda?

La letteratura, soprattutto quella del 900, ha costantemente messo a fuoco la domanda. Ora io penso che questa sia un po’ la nostra miopia di questi tempi, cioè non renderci conto che dovremmo buttare a mare tutta l’arte, tutta la letteratura, se avessimo un’ipotesi negativa sulla domanda.

Anche Clemente Rebora in una poesia diceva «ma il dolore non basta e l’amore non viene». È chiaro che non basta farsi delle domande perché, come ci insegna Dante, uno come Virgilio, che si è fatto domande per tutta la vita, non va in paradiso, rimane nel limbo.

Il limbo è la pena di un desiderio senza speranza, di una domanda che non viene mai abbracciata dall’amore, per cui è vero che la domanda non basta, la domanda è insufficiente, ma la domanda è ciò che anima la vita.

Partire dall’ipotesi negativa per cui è inutile farsi le domande è un’ipotesi di partenza pregiudiziale. Io non saprei come fare lezione con i miei alunni se pensassi che le domande non hanno senso, innanzitutto perché dovrei evitare, una pagina sì e una pagina no, un po’ tutti i testi letterari. Cioè dovrei buttare a mare Dostoevskij, Leopardi, Ungaretti. Un po’ perché dovrei ignorare i miei alunni.

Mi pare che la letteratura del novecento documenti non una soluzione, quanto una realistica presa d’atto che tante soluzioni che sono state provate – da quella autonomistica di Mattia Pascal di auto-costruirsi una nuova vita, a quella scientista che il mondo sarà risolto – non funzionano perché la domanda è molto più grande.

Perciò leggere quel problema ci permette di guardare ben oltre i problemi sanitari, ben oltre i problemi psicologici, e andare fino al problema dell’anima. Lì l’uomo è davanti all’abisso ed è davanti finalmente non ad altri uomini che gli possano rispondere – tant’è che Leopardi chiedeva alla luna che può anche essere silenziosa, ma molto meglio essere silenziosi che chiacchierare sulle domande come purtroppo fanno gli uomini.

Cioè lì è il territorio del mistero, del metafisico, e la poesia mette gli occhi su questo. Dice che la vita è critica perché la vita è desiderio di uscire a riveder le stelle, non è desiderio di uscire a riveder gli amici a fare sport. È desiderio di stelle, è desidero di Altro!

Cosa ti dà la forza di vivere dentro l’incompletezza?

[C’è un ragazzo che chiede: di fronte all’incompletezza, di fronte alla mancanza, come si fa a dire di sì, come accettare il giorno in cui nulla accade, che cosa ti fa dire “ne vale la pena”, in forza di che cosa uno riesce a vivere dentro questa incompletezza?]

Mi viene in mente una risposta che dà Cesare Pavese alla domanda se si può accettare che alla fine della giornata ci scopriamo sempre soli anche se siamo stati sempre con gli altri, e Pavese dice: dobbiamo accettarlo perché cosa sarebbe la vita se non ci sentissimo soli e svanisse il mistero? Saremmo più morti dei morti, perché ignoreremmo di volere qualcosa.

Allora da un lato è inaccettabile una vita che si ripresenta sempre uguale, dall’altro il contrario di una vita che si presenta sempre uguale è quel personaggio di Michelstaedter che è convinto che la vita basti a se stessa.

Io vedo, quando parlo con tanti insegnanti, con tanti colleghi, che loro da un lato dicono: “e anch’io sto scocciato, sono apatico, non ce la faccio più”. Dall’altro è come se poi il problema non lo vedessero, per cui si fanno queste cinque ore di collegamento senza mai leggere questa insofferenza, questa noia, questa impossibilità di accettare una vita circoscritta.

La vita circoscritta è impossibile, ci vuole un fischio di treno, ci vuole una stella che resista, ci vuole una cosa che si salvi dall’orrore, ci vuole una Lucia che aiuti ad alimentare quel fuoco che ci portiamo dentro, altrimenti è letteralmente inaccettabile.

Però la poesia segna la condizione. La poesia parla di quel fuoco che ci portiamo dentro e che un altro può riaccendere. Non parla appena di sistemare le vicende esteriori, o di uscire da un brutto periodo aspettando il Godot della normalità.

Parallelismo con La casa in collina di Pavese

[Un ragazzo che riprende Cesare Pavese ne La casa in collina dove c’è l’immagine di lui in collina nel silenzio e in lontananza Torino che brucia e lui dice: non senti un parallelismo con la nostra situazione?]

C’è un parallelismo e rincaro la dose: il parallelismo sta anche nel fatto che alla fine de La casa in collina [ndr il romanzo viene pubblicato quando la seconda guerra mondiale, la lotta partigiana, è terminata.] Pavese scrive: io non credo che la guerra possa finire. Cioè per Pavese la guerra non era soltanto la guerra tra i fascisti e gli antifascisti. C’era una guerra più seria perché anche quelli che sono morti ci chiedono la ragione per cui sono morti – scrive nell’ultima pagina de La casa in collina.

Cioè una morte non si giustifica con l’instaurazione della democrazia: finalmente abbiamo liberato l’Italia dal fascismo. Questo non giustifica la singola morte. C’è una solitudine più brutale ancora dell’uomo solo che guarda uno scenario assurdo. La solitudine più brutale è quando, in mezzo agli altri, si avverte di essere del tutto soli.

Cioè una persona che si collega, è li collegata e ci sono altre 25 persone, oppure finalmente c’è il via libera, può uscire, e si accorge che lì dentro, cioè mentre sta con gli altri, non c’è nessuno che si accorga di lui. Mentre l’uomo che guarda una città in fiamme, da solo, come per esempio Enea, l’uomo che guarda è l’uomo che paradossalmente sente di essere insieme a quegli uomini soli. Scopre l’apertura sua verso quegli altri uomini che sono soli.

La monotonia delle giornate

[Un ragazzo riprende Rigoni Stern e dice: quello che descrive Rigoni Stern nella trincea è quello che vivo io e durante la giornata sono sempre le stesse cose. Poi prendi un bel voto e allora ti sembra di volare e poi il nulla, ma come si fa a uscire da una situazione del genere?]

Penso che Rigoni Stern sia un altro gigante che ci aiuta a capire proprio la monotonia delle giornate che si ripetono uguali. Il delirio di immobilità che citavo a proposito di Montale che dice: arriva la barca di salvezza ma poi, a un certo punto, scompare la scia di questa barca di salvezza e quindi è assolutamente vero.

La poesia alza la posta in gioco, cioè continua a dire che è inaccettabile, non possiamo accontentarci di risposte piccole, non possiamo accontentarci di un fiore in mezzo alla siepe. Non si tratta di un fiore in mezzo alla siepe, si tratta di qualcosa che la siepe non ha.

Ho citato la siepe perché Leopardi, quando scrive L’Infinito, viveva in una zona rossa da vent’anni, perché casa sua era zona rossa, non si poteva mettere piede fuori di casa. Leopardi in quella zona rossa, in cui viveva da quando era nato, ha pensato all’infinito. Quindi è inaccettabile tutto ciò che sia semplicemente un fiorellino che spunta.

Come si fa ad accettare il nulla che torna? Non lo si accetta! Ma quando una poesia trova le parole per dire che il nulla che torna – la scia che viene di nuovo cancellata dal mare perennemente identico a se stesso – è inaccettabile, uno comincia a sentire di avere dei fratelli che condividono la propria fragilità.

E non ti salvano la vita, perché la poesia non ha mai salvato la vita a nessuno, però ti mettono nelle condizioni di porre la domanda della risposta vera. Virgilio a Dante non lo porta in paradiso. Virgilio lo fa iniziare a camminare verso il paradiso delle risposte, ma la poesia è la terra delle domande.

Pirandello e la frantumazione dell’io

[Vi è un ragazzo che chiede se puoi approfondire la questione di Pirandello, cioè la frantumazione dell’io in rapporto a quello che stiamo vivendo noi oggi, se tu non vedi proprio un’analogia molto molto forte e come si possa ritrovare un io.
Di domande ce ne sono tantissime e sono commoventi perché stai toccando dei livelli umani veramente impressionanti, per cui val la pena che vada avanti questo dialogo.]

Pirandello è sicuramente uno che ci aiuta a leggere il nostro tempo. Se io penso a un saggio del 1896 di cui io sono innamorato, si chiama Rinunzia, lui dice che noi siamo rimasti nel mistero e senza Dio, cioè noi ci consideriamo dentro una piccola patria di piccoli enti che dovrebbero poggiare non più in cielo, ma sulla terra, i propri ideali, senza domandare nient’altro ma – scrive Pirandello – è possibile che la domanda non sorga se la terra rimane pur sempre circondata di cielo?

Ci dicono che noi dobbiamo cavarcela da soli, che l’uomo deve risolvere la sua crisi, la sua frammentazione, con le proprie forze, ma il progetto fallisce e lì nasce il nuovo problema. Cioè Pirandello dice, in un altro saggio che si chiama Arte e coscienza d’oggi in cui dice: noi c’eravamo tolti dalle labbra il nome di Dio perché ormai eravamo progrediti. Ora quel nome, Dio, ci torna non solo sulle labbra, ma ci torna nella lacerazione del cuore, ci torna nella ferita del cuore perché noi non siamo stati capaci di darci quella felicità che ci sembrava a portata di mano.

Il problema è esattamente questo perché, quando tu scappi, quando tu individui il nemico e dici: allora, il problema è che non sopporto mia moglie, non sopporto mia suocera, non sopporto i miei debiti, e quindi scappi perché sei convinto di avere un’alternativa, ma poi ti accorgi che l’alternativa non risolve il problema, cioè ti accorgi che anche con Adriana ci sono gli stessi problemi che c’erano con tua moglie, che anche da Adriano Meis ci sono i problemi che avevi come Mattia Pascal. A quel punto dove vai?

A quel punto capisci che i veri pazzi non sono quelli che chiamano pazzi, i veri pazzi sono quelli che si credono sani, sono quelli che si credono normali.

Ho in mente l’Enrico IV di Pirandello in cui Enrico IV, che fa il pazzo, è l’unico sano. Lui recita la parte del pazzo e si accorge che tutti gli altri non recitano la parte dei pazzi, sono proprio degli attori viventi. Cioè sono proprio persone che sono sempre fuori da loro stessi. Ci sono persone che fanno finta e credono invece di fare sul serio. Pirandello dice: quando l’uomo capisce che l’alternativa non è migliore del problema da cui scappava, lì si rende conto che il problema non è cambiare una circostanza con un’altra. Ci torna Dio nell’ardore della ferita e non solo sulle labbra.

La libertà secondo Montale

[Vi è una domanda di un confronto tra Montale e Chaplin che è interessante. Questo ragazzo dice che Montale ha una certa idea della libertà, Chaplin dice che la libertà è relativa. La libertà è una questione fondamentale, non solo del novecento. Lei cosa ne pensa?]

Io penso ad un’intervista di Montale in cui lui dice che il problema della sua vita non nasceva dal fascismo, anche se noi pensiamo a come le letterature lo descrivono, ossia che la prima raccolta era del ’25 quindi lui quello che sentiva era dovuto al fascismo, ma la libertà non era libertà dal fascismo.

Io sentivo che la guerra si giocava su tutt’altro piano e allora la libertà, per Montale, cioè quella maglia rotta nella rete che ci stringe, quell’anello che non tiene, quel filo da disbrogliare che ci salvi da questa apparenza continua al di qua della muraglia. Quella libertà, forse la maniera più chiara in cui Montale la espresse in un poesia del Diario Postumo in cui, mezzo secolo dopo gli ossi di seppia, Montale dice:

In giorni come questi, spesso
la tetraggine m’assale
e il vivere d’ora in ora
mi tortura. Ma arrivi tu
che sconfiggi la noia
coi tuoi discorsi variopinti.
Anche oggi cercheremo una breccia.
Una parola che ci possa salvare
e che ci tenga in bilico
sul confine ideale tra realtà
e fantasia potrà, anche
se per poco, cangiare l’esistenza.

Eugenio Montale, Diario postumo

La libertà è quando c’è una breccia, quando una breccia ci permette di andare dall’altra parte della muraglia, ma questa breccia cos’è? È quando arrivi tu. Questa è la libertà.

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