ISR: Incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere – L.Giussani

Riassunto dettagliato del capitolo 3 del volume "Il senso religioso", di don Luigi Giussani, con il titolo "Terza premessa: incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere".

0
21

Il vero problema non è di intelligenza, la ragione come intelligenza, come capacità di abbordare e cogliere il reale. Il problema è un altro: la terza premessa riguarda ancora il comportamento del soggetto che conosce che, oltre che ragionevole, deve essere morale. Stavolta la parola «morale» è in senso etico.

Di fronte alla domanda: «Come si fa a fidarsi di una persona?» rimane aperto il problema perché viene introdotto un fattore che noi chiamiamo “moralità”. Come incide la moralità sulla conoscenza?

La ragione inscindibile dall’unità dell’io

C’è una relazione organica tra lo strumento della ragione e il resto della nostra persona. La ragione non può staccarsi dalla persona e agire da sola. Non è una batteria che si può tirar fuori. Agisce solo all’interno di una unità organica che si chiama «io», e così un mal di pancia, un mal di testa, un’angoscia per l’abbandono improvviso della ragazza che da tre mesi era con te, la condizionano. In presenza di un dolore fisico, o di rabbia o delusione per l’incomprensione altrui, non si utilizza bene la ragione.

La conoscenza è profondamente legata e condizionata dal sentimento.

La ragione legata al sentimento

Nell’orizzonte dell’esperienza umana penetrano avvenimenti come:

  • provo un dolore fisico
  • mi viene un’idea
  • sono seccato, compiaciuto o curioso

Questi producono inevitabilmente una reazione, vale a dire uno stato d’animo. Dilatiamo l’osservazione: qualunque cosa interviene nell’orizzonte di conoscenza della persona produce una inevitabile reazione.

Sarà un mio stato d’animo di indifferenza, simpatia o antipatia, secondo tutte le sfumature possibili, ma non esiste niente che entri nell’orizzonte della nostra conoscenza e perciò della nostra esperienza senza che provochi, solleciti o determini in noi uno stato d’animo. La parola che indica lo stato d’animo è sentimento. La ragione è organicamente legata alla totalità dell’io, dunque è organicamente legata anche allo stato d’animo, cioè al sentimento.

Chiameremo «valore» l’oggetto della conoscenza in quanto interessa la vita della ragione. Il valore è la realtà conosciuta proprio in quanto interessa, in quanto ne vale la pena. Se uno ha un cuore meschino, l’ambito del valore sarà più ristretto. Il Vangelo ci ricorda che per il Signore anche il piccolo fiore di prato che l’uomo calpesta senza accorgersi è di grande valore. Aggiunge infatti che Salomone in tutta la sua gloria non ha potuto vestirsi così splendidamente come il Padre che sta nei cieli veste il fiorellino.

L’ipotesi di una ragione senza interferenze

Qui insorge il problema assai noto della cultura moderna, razionalistica e illuministica. La ragione è pensata come capacità di conoscenza nei confronti dell’oggetto senza che niente debba interferire, nemmeno lo stato d’animo e il sentimento, perché non avresti una conoscenza oggettiva ma solo un’impressione del soggetto.

C’è però un tipo di oggetti che costituisce il termine di un interesse che l’uomo non può evitare: l’interesse ai significati. Ci sono oggetti in cui la nostra persona si gioca alla ricerca di un significato per sé, o tipi di oggetti che si propongono alla nostra persona come pretesa di significato per essa, e sono all’interno di tre ambiti:

  • l’ambito del destino
  • l’ambito affettivo
  • l’ambito politico (della convivenza)

Quanto più una cosa interessa all’individuo, quanto più cioè è un valore, e quanto più è vitale, tanto più potente genera uno stato d’animo, una reazione di antipatia o simpatia, tanto più genera sentimento, e tanto più la ragione è condizionata da questo sentimento per la conoscenza di quel valore.

Allora la cultura razionalista può dire: è chiaro che con quel tipo di oggetti (destino, amore, vita consociata) la certezza obiettiva non si può raggiungere, perché gioca troppo il fattore sentimento. La serietà dell’uso della ragione allora esigerebbe la eliminazione del sentimento o la riduzione al minimo di questo fattore.

Ma dove si può eliminare quel fattore? Solo nel campo scientifico e matematico. Perciò – argomenterebbe il razionalista – solo in questi campi può essere percepita e affermata la verità sull’oggetto.

Una questione esistenziale e una questione di metodo

Questa posizione, premuta nella sua logica, dovrebbe dare il seguente risultato: quanto più la natura mi fa interessare a una cosa, e quanto più mi dà curiosità, esigenza e passione per conoscerla, tanto più mi impedisce di conoscerla, ma tutto il nostro essere si ribella a questa conseguenza.

Certo, la natura potrebbe rivelarsi contraddittoria, ma prima di giungere a tale conclusione – che va contro la nostra natura – è ragionevole cercare qualche altra soluzione.

È un errore formulare un principio esplicativo che per risolvere la questione debba avere la necessità di eliminare un fattore in gioco. Se la natura ci fa così, perché dobbiamo essere costretti a dire: «sopprimiamo uno degli elementi del problema»?

La ragione è conoscenza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. La vera soluzione sta in una posizione che non solo non sente la necessità di eliminare un fattore, ma esalta tutti i fattori, li valorizza.

Un altro punto di vista

Immagina che stai utilizzando un cannocchiale per guardare un bel panorama, ma quando provi a guardare all’interno non vedi nulla, è tutto oscuro, opaco. Metti a fuoco la lente e ti si presenta un panorama eccezionale. La lente del cannocchiale non è fatta per impedire o rendere più difficoltosa la vista, ma per renderla più facile.

Il sentimento va immaginato come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo; la ragione lo può conoscere più facilmente e più sicuramente.

Allora il sentimento è una condizione importante per la conoscenza; il sentimento è un fattore essenziale alla visione. Non nel senso che sia esso a vedere, ma nel senso che rappresenta la condizione per cui la ragione veda secondo la sua natura.

Questa spiegazione valorizza tutti e tre i fattori ed è razionale al contrario della prima.

Il problema non è che il sentimento venga eliminato, ma che il sentimento sia al suo posto giusto. Questo è un problema morale.

Che l’uomo per giudicare debba essere assolutamente indifferente all’oggetto da giudicare, astrattamente può sembrare giusto ma non può andar bene per i valori vitali.

È una mistificazione immaginare che il giudizio con cui la ragione cerca di raggiungere la verità dell’oggetto sia più adeguato quando lo stato d’animo sia in perfetta atarassia, in completa indifferenza. Si tratterebbe il problema come si tratta un sasso e non ci si capisce più niente.

Questa incidenza del sentimento non diminuisce, ma aumenta là dove l’oggetto si fa più carico di significato, ma cosa vuol dire “il sentimento al suo posto”?

Prima di tutto bisogna dire che questo è un problema morale, che riguarda il modo di porsi, di governarsi, di impostarsi di fronte alla realtà. Non è un problema di acume, di intelligenza.

Se una determinata cosa non mi interessa, non la guardo. Se non la guardo, non la posso conoscere. Per farne conoscenza ho bisogno di porre attenzione a essa. Se mi interessa, mi colpisce, sarò teso nei suoi confronti. Difficilmente si studia ciò che non interessa e certamente sarebbe ingiusto dare giudizi ugualmente sull’argomento.

Supponete di star parlando ad una persona che, distratta da altro, ti risponde “sì, sì” meccanicamente e quando alla fine gli chiedi: “sei d’accordo con me?”, lui risponde “No, no! Non son persuaso!”. Questo è il più grande delitto che la maggioranza degli uomini compie di fronte al problema del destino, della fede, della religione, della Chiesa, del cristianesimo.

Perché in tutt’altre faccende affaccendata, il suo cervello a queste cose è “morto e sepolto”, ma poi pretende di avere un giudizio, un’opinione, anche perché su queste cose non è possibile non avere un’opinione. Un uomo non può esimersi dall’avere un’opinione circa il nesso tra il suo presente e il destino.

Si comprende quindi che il cuore del problema conoscitivo umano non sta in una particolare capacità di intelligenza. Quanto più un valore è vitale ed elementare nella sua importanza – destino, affezione, convivenza – tanto più la natura dà a chiunque l’intelligenza per conoscere e giudicare.

Il centro del problema è realmente una posizione giusta del cuore, un atteggiamento esatto, un sentimento al suo posto, una moralità.

La moralità nel conoscere

Raramente gli uomini apprendono ciò che credono già di sapere. Nel campo della conoscenza questa è la regola morale: l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle opinioni che già ci siamo fatti su di esso.

In breve: amare la verità più di se stessi.

Un esempio clamoroso: la concezione di Dio, della religiosità o del cristianesimo dalla seconda metà dell’800 in poi, creata dalla cultura dominante. Tutti cresciamo stipati di opinioni al riguardo, imposte dall’ambiente. E che faticosa libertà esige rompere l’attaccamento alle impressioni già riportate e dare giudizi veri su questi problemi!

È un problema di moralità. Quanto più il valore è vitale, quanto più è per sua natura proposta alla vita, tanto più il problema non è di intelligenza ma di moralità cioè di amore alla verità più che a se stessi.

Nel Vangelo c’è una frase che dice:

«Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli».
(Mt 5,3)

Ma chi è il povero? Il povero è chi non ha nulla da difendere, chi è distaccato da ciò che sembra avere, così che la sua vita non è per affermare il proprio possesso.

La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che desidera la verità e basta, al di là di tutto l’attaccamento che vive, prova, sente alle immagini che già si è fatto sulle cose. Il Signore ha dato un esempio, un paradigma di questo atteggiamento di amore alla verità:

«Se non sarete come bambini non entrerete nel regno dei cieli».
(Mt 18,3)

Non è un ideale di infantilismo che ci ha proposto, ma di sincerità attiva di fronte al reale. I bambini hanno gli occhi sgranati e non dicono: «Ma…, se…, però…»; dicono «pane al pane e vino al vino», o come disse ancora Cristo:

«Il vostro dire sia “sì”, “no”; ogni altra posizione viene dalla menzogna».
(Cfr. Mt 5,37)

Il preconcetto

Amare la verità più dell’idea che su di essa ci siamo già fatti, vuol dire essere liberi dai preconcetti. Però «assenza di preconcetti» è una frase equivoca, perché l’assenza di preconcetto nel senso letterale della parola è impossibile.

Perciò stesso che uno nasce in una certa famiglia, che uno frequenta certi amici, perciò stesso che ha la tal maestra delle scuole elementari, che frequenta certe scuole medie, che va al liceo, all’università, perciò stesso che vede la televisione, che legge il giornale, perciò stesso che è un uomo normale in condizioni normali, è tutto imbevuto come per osmosi di preconcetti, cioè di idee e immagini sui valori, sui significati delle cose, specialmente nei 3 campi: destino, affettività, politica.

Allora il vero problema non è non avere preconcetti, ma di seguire quel processo grande e semplicissimo di distacco da sé di cui parla il Vangelo. Quando il Vangelo parla di distacco da sé stessi (LC 17,33), si riferisce a un atteggiamento in cui la libertà si domina così da utilizzare la sua energia in modo consono allo scopo.

Abbiamo detto che per arrivare alla sorgente di criterio, che abbiamo chiamato «esperienza elementare», occorre un’ascesi, poiché bisogna sempre trapassare l’incrostazione che la vita mette su di noi.

Allo stesso modo per amare la verità più di se stessi, per amare la verità dell’oggetto più dell’immagine che ci siamo fatti su di esso, per questa povertà di spirito, per questo occhio sgranato di fronte al reale e alla verità come quello del bambino, occorre un processo e un lavoro e quindi – anche qui – un’ascesi.

La moralità nasce come spontaneità in noi, come atteggiamento originale, ma subito dopo, se non è continuamente recuperata da un lavoro, si altera, si corrompe. La parabola che tende inesorabilmente alla corruzione deve essere continuamente arginata.

Cosa può persuadere a questa ascesi? L’uomo è mosso solo da un amore e da una affezione. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro per arrivare a una capacità abituale di distacco dalle proprie opinioni e dalle proprie immaginazioni (non di eliminazione, ma di distacco da esse!) è l’amore e l’affezione a noi stessi come destino.

È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che può persuadere alla virtù vera. È questo coinvolgimento totale che colpiva gli studenti di Giussani. Uno di loro, infatti, racconta: «Giussani non esortava a credere, ma impegnava a usare la ragione, a usare tutto di noi».

Punti chiave

  • La ragione senza sentimento: l’errore della cultura moderna, razionalistica, illuministica, che limita la conoscenza al solo campo scientifico e matematico ignorando l’interesse ai significati e i valori vitali.
  • Il sentimento aiuta la ragione a vedere secondo la sua natura: solo così vengono esaltati tutti i fattori della realtà, senza essere costretti ad eliminarne uno.
  • Il sentimento al suo posto giusto: amare la verità più di se stessi, delle proprie reazioni e delle immagini che già ci siamo fatti sulle cose (preconcetti). Occorre una povertà di spirito, degli occhi sgranati sulla realtà come quelli di un bambino, come insegna Cristo. Occorre quel distacco da sé di cui parla il Vangelo.
  • La moralità nasce in noi come atteggiamento originale, ma dopo, se non recuperata da un lavoro (da un’ascesi), si corrompe. Ciò che persuade a questo lavoro è l’amore e l’affezione a sé come destino.
Articolo precedenteDa don Abbondio a Schettino: quale cura per il nostro moralismo?
Articolo successivoIl senso religioso: il punto di partenza – L.Giussani

Lascia una risposta

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome