Da don Abbondio a Schettino: quale cura per il nostro moralismo?

Una riflessione sulla quotidiana, moralistica “rimozione della nostra fragilità”. Le colpe della scuola. Articolo pubblicato da Valerio Capasa su IlSussidiario.net il 21 febbraio 2012.

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A cosa serve la poesia, se poi la realtà ci sbatte contro con violenza? Non ci interessa appena se uno studente possa farsene qualcosa domani nel mondo del lavoro, ma se ci aiuta a guardare diversamente le cose che succedono: per esempio la tragedia della Costa Concordia.

A me sembra, come a Calvino, che essa sia un’occasione insostituibile, per la «sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano»: e non è forse inumana la dilagante indignazione a buon mercato, fondata sul presupposto manicheo secondo cui i mostri sono sempre altri e mai noi?

In queste settimane, per esempio, ci si è svelato uno stuolo di insospettabili esperti di navigazione, sedicenti capitani coraggiosi e senza peccato pronti a scagliare la (prima?) pietra contro il comandante Schettino. Un mio alunno quattordicenne, che voleva murarlo vivo “perché non ha compiuto il proprio dovere”, dimenticava però che qualche minuto prima si era giustificato perché non aveva fatto i compiti.

Di questa mancanza di realismo, di questa rimozione della nostra fragilità, quanto è responsabile un certo modo di leggere a scuola? Prendiamo don Abbondio: insegnanti e studenti pronti da un paio di secoli a dargli del vile, comodamente seduti dietro cattedre e banchi, con lo stesso atteggiamento di chi guarda in poltrona gli errori arbitrali alla moviola: ma quanti, se terrorizzati da due tipi loschi, sarebbero così coraggiosi da opporsi? In balia di quante connivenze ci adeguiamo perfino in circostanze più soft?

Come ha osservato Pirandello, «noi dovremmo tutti provar disprezzo e indignazione per don Abbondio», «eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla simpatia». Come mai?

Perché Manzoni «ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane», alla luce dell’«esperienza della vita» anziché di princìpi astratti («forse lo stesso don Abbondio, in astratto, parlando, predicando della missione del sacerdote, avrebbe detto su per giù le stesse cose» del cardinal Borromeo).

«Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio»: ma «noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui», e infatti «il poeta non si sdegna», perché sa che l’«ideale non si incarna se non per rarissima eccezione».

Non è che lo giustifichi, quasi prendesse la «debolezza per misura del dovere», e anzi «ne fa strazio» senza risparmiarci un briciolo di quella colpevole «paura»: «quella pietà, in fondo, è spietata», ma «il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è per umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza».

È che «il coraggio, uno non se lo può dare». Si difende così don Abbondio, «agnello tra i lupi», e il cardinal Borromeo sembra d’accordo, aggiungendo tuttavia che è anche vero che il coraggio che non abbiamo possiamo chiederlo.

Non sapete che «c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio?».

Non è un caso se Lucia, il personaggio più coraggioso del romanzo, è anche quello più aiutato a viverlo (da Renzo a fra Cristoforo, dall’innominato alla compagna in lazzaretto).

Troppo cristiano? Nell’Iliade gli eroi – mica i deboli – pregano continuamente. Quando Patroclo va a combattere, Achille chiede a Zeus di «rafforzargli il cuore nel petto», perché consapevole che «la mente di Zeus è sempre più forte degli uomini: mette in fuga anche un valoroso e gli toglie facilmente la vittoria; altre volte lo spinge egli stesso a combattere».

Perfino Ettore, dopo dieci anni e ventidue canti pieni di eroismo, appena vide Achille «fu preso dal tremito e non poté più resistere: si lasciò indietro le porte e si mise in fuga», girando per tre volte intorno alla città di Troia come un cerbiatto «atterrito» da un leone.

Nell’uomo convivono la tensione alla gloria e – in agguato – la debolezza; dentro ciascuno c’è Ettore e c’è don Abbondio. Non accorgersene vuol dire guardarlo non come un mistero, con la pietas che merita, ma come un meccanismo.

È un habitus che assorbiamo a poco a poco. A volte penso che insegnare le funzioni di Propp possa abituare a non sentire più il bisogno di penetrare nell’esperienza di un racconto, come se bastasse individuare, in ogni narrazione, l’eroe, l’antagonista e gli altri ruoli; analogamente per i fatti di cronaca – si tratti di Sarah Scazzi o dell’isola del Giglio – ci servono un eroe, una vittima, un colpevole e una malafemmina, nonché un pizzico di sospetto su tutto.

Forse disturbano troppo quelle domande sterminate sulla vita e sulla morte apertesi improvvisamente come lo scafo della Concordia nell’impatto con gli scogli della realtà, ci sentiamo naufragare in quell’angoscia senza parole, intravedendo un mistero troppo profondo per essere sondato: e allora saltiamo nella scialuppa degli schemi semplificatori, accontentandoci che chi ha sbagliato paghi e che il relitto venga rimesso a posto, perché la nostra personale crociera, fatta anche di celentaneschi richiami morali, must go on.

Nel ’47 Pasolini fotografava lucidamente uno dei grandi equivoci dell’insegnamento dell’italiano:

«la preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica… Ahimé, quale grigiore! Non si pensa dunque che l’assassino leggendo la storia di un assassino terrà sempre per la vittima?».

Quanti brani – magari letterariamente inconsistenti – vengono fatti leggere, quanti incontri con gli autori vengono organizzati, col solo scopo di cavarne un messaggio edificante: contro la guerra, contro la camorra, contro il razzismo, per la legalità, per sentirsi cittadini attivi ed europei.

«I ragazzi, udita la favola, hanno esaurito il loro interesse: indi si inchinano, o innocenti!, davanti alla morale; è un modo come un altro per ignorarla. Ma la morale: ossia il conclusivo e l’utile, non si trova in altro luogo che nel linguaggio stesso della favola, è tutt’uno con la curiosità suscitata. Nel caso che una “morale” indelicatamente applicata fosse: la favola insegna che non bisogna uccidere, sarebbe in effetti inutile: sì che, nonché essere sottintesa nel nesso, andrebbe piuttosto sottintesa nella compassione sollevata, per esempio, non verso la vittima, ma verso l’assassino».

C’è qualcuno che prova compassione verso l’assassino, verso chi abbandona la nave, verso noi, complici del male per debolezza? Come quella che Dante ebbe per il suo nemico Buonconte di Montefeltro, che l’ultimo istante prima di morire fu salvato eternamente soltanto «per una lagrimetta».

Valerio Capasa
Pasolini, Schettino e noi: quale rimedio al nostro moralismo? su Ilsussidiario.net

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