Solidarietà di Pasolini alla Chiesa come opposizione

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Forse qualche lettore è stato colpito da una fotografia di Papa Paolo VI con in testa una corona di penne Sioux, circondato da un gruppetto di «Pellerossa» in costumi tradizionali: un quadretto folcloristico estremamente imbarazzante quanto più l’atmosfera appariva familiare e bonaria.

Non so cosa abbia ispirato Paolo VI a mettersi in testa quella corona di penne e a posare per il fotografo. Ma non esiste incoerenza. Anzi, nel caso di questa fotografia di Paolo VI, si può parlare di atteggiamento particolarmente coerente con l’ideologia, consapevole o inconsapevole, che guida gli atti e i gesti umani, facendone «destino» o «storia». Nella fattispecie, «destino» di Paolo VI e «storia» della Chiesa.

Negli stessi giorni in cui Paolo VI si è fatto fare quella fotografia su cui «il tacere è bello» (ma non per ipocrisia, bensì per rispetto umano), egli ha infatti pronunciato un discorso che io non esiterei, con la solennità dovuta, a dichiarare storico. E non mi riferisco alla storia recente, o, meno ancora, all’attualità.

Tanto è vero che quel discorso di Paolo VI non ha fatto nemmeno notizia, come si dice: ne ho letto nei giornali dei resoconti laconici ed evasivi, relegati in fondo alla pagina. Dicendo che il recente discorsetto di Paolo VI è storico, intendo riferirmi all’intero corso della storia della Chiesa cattolica, cioè della storia umana (eurocentrica e culturocentrica, almeno).

Paolo VI ha ammesso infatti esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa, e l’abbandona quindi a se stessa; che i problemi sociali vengono risolti all’interno di una società in cui la Chiesa non ha più prestigio; che non esiste più il problema dei «poveri», cioè il problema principe della Chiesa ecc. ecc.

Ho riassunto i concetti di Paolo VI con parole mie: cioè con parole che uso già da molto tempo per dire queste cose. Ma il senso del discorso di Paolo VI è proprio questo che ho qui riassunto: ed anche le parole non sono poi in conclusione molto diverse.

A dir la verità non è la prima volta che Paolo è sincero: ma, finora, i suoi impulsi di sincerità hanno avuto manifestazioni anomale, enigmatiche, e spesso (dal punto di vista della Chiesa stessa) un po’ inopportune. Erano quasi dei raptus che rivelavano il suo stato d’animo reale, coincidente oggettivamente con la situazione storica della Chiesa, vissuta personalmente nel suo Capo.

Le encicliche «storiche» di Paolo VI, poi, erano sempre frutto di un compromesso, fra l’angoscia del Papa e la diplomazia vaticana: compromesso che non lasciava mai capire se tali encicliche fossero un progresso o un regresso rispetto a quelle di Giovanni XXIII. Un papa profondamente impulsivo e sincero come Paolo VI aveva finito con l’apparire, per definizione, ambiguo e insincero.

Ora di colpo, è venuta fuori tutta la sua sincerità, in una chiarezza quasi scandalosa. Come e perché? Non è difficile rispondere: per la prima volta Paolo VI ha fatto ciò che faceva normalmente Giovanni XXIII, cioè ha spiegato la situazione della Chiesa ricorrendo a una logica, a una cultura, a una problematica non ecclesiastica: anzi, esterna alla Chiesa; quella del mondo laico, razionalista, magari socialista – sia pur ridotto e anestetizzato attraverso la sociologia.

Un fulmineo sguardo dato alla Chiesa «dal di fuori» è bastato a Paolo VI a capirne la reale situazione storica: situazione storica che rivissuta poi «dal di dentro» è risultata tragica. Ed è qui che è scoppiata, stavolta sinceramente, la sincerità di Paolo VI: anziché prendere la falsariga del compromesso, della ragion di Stato, dell’ipocrisia, sia pure postgiovannea, le parole «sincere» di Paolo VI hanno seguito la logica della realtà.

Le ammissioni che ne sono seguite sono dunque ammissioni storiche nel senso solenne che ho detto: tali ammissioni infatti delineano la fine della Chiesa, o almeno la fine del ruolo tradizionale della Chiesa durato ininterrottamente duemila anni. Certamente – magari attraverso le illusioni che non potrà non dare l’Anno Santo – Paolo VI troverà modo di ritornare (in buona fede) insincero.

Il suo discorsetto di questa fine d’estate a Castelgandolfo, sarà formalmente dimenticato, saranno alzate intorno alla Chiesa nuove rassicuranti barriere di prestigio e speranza ecc. ecc. Ma si sa che la verità, una volta detta, è incancellabile; e irreversibile la nuova situazione storica che ne deriva.

Ora, a parte i particolari problemi pratici (come la fine delle vocazioni religiose) sulla cui soluzione il Papa è apparso impotente a fare qualsiasi ipotesi, è su tutta la drammatica situazione della Chiesa che egli si dimostra del tutto irrazionale (cioè, ancora una volta in altro modo, sincero). La soluzione infatti che egli propone è «pregare». Il che significa che dopo aver analizzato la situazione della Chiesa «dal di fuori», e averne intuito la tragicità, la soluzione che egli propone è riformulata «dal di dentro».

Dunque non solo tra impostazione e soluzione del problema c’è un rapporto storicamente illogico: ma c’è addirittura incommensurabilità. A parte il fatto che il mondo ha superato la Chiesa (in termini ancora più totali e decisivi di quanto abbia dimostrato il «referendum») è chiaro che tale mondo, appunto, non «prega» più. Quindi la Chiesa è ridotta a «pregare» per se stessa. Così Paolo VI, dopo aver denunciato, con drammatica e scandalosa sincerità il pericolo della fine della Chiesa, non dà alcuna soluzione o indicazione per affrontarlo.

Forse perché non esiste possibilità di soluzione? Forse perché la fine della Chiesa è ormai inevitabile, a causa del «tradimento» di milioni e milioni di fedeli (soprattutto contadini, convertiti al laicismo e all’edonismo consumistico) e della «decisione» del potere, che è ormai sicuro, appunto, di tenere in pugno quegli ex fedeli attraverso il benessere e soprattutto attraverso l’ideologia imposta loro senza nemmeno il bisogno di nominarla? Può darsi. Ma questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo.

In una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. Essa dovrebbe passare all’opposizione. E, per passare all’opposizione, dovrebbe prima di tutto negare se stessa. Dovrebbe passare all’opposizione contro un potere che l’ha così cinicamente abbandonata, progettando, senza tante storie, di ridurla a puro folclore.

Dovrebbe negare se stessa, per riconquistare i fedeli (o coloro che hanno un «nuovo» bisogno di fede) che proprio per quello che essa è l’hanno abbandonata. Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l’Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l’affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio).

È questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi. Faccio un solo esempio, anche se apparentemente riduttivo.

Uno dei più potenti strumenti del nuovo potere è la televisione. La Chiesa finora questo non lo ha capito. Anzi, penosamente, ha creduto che la televisione fosse un suo strumento di potere. E infatti la censura della televisione è stata una censura vaticana, non c’è dubbio. Non solo, ma la televisione faceva una continua réclame della Chiesa.

Però, appunto, faceva un tipo di réclame totalmente diversa dalla réclame con cui lanciava i prodotti, da una parte, e dall’altra, e soprattutto, elaborava il nuovo modello umano del consumatore. La réclame fatta alla Chiesa era antiquata e inefficace, puramente verbale: e troppo esplicita, troppo pesantemente esplicita. Un vero disastro in confronto alla réclame non verbale, e meravigliosamente lieve, fatta ai prodotti e all’ideologia consumistica, col suo edonismo perfettamente irreligioso (macché sacrificio, macché fede, macché ascetismo, macché buoni sentimenti, macché risparmio; macché severità di costumi ecc. ecc.).

È stata la televisione la principale artefice della vittoria del «no» al referendum, attraverso la laicizzazione, sia pur ebete, dei cittadini. E quel «no» del referendum non ha dato che una pallida idea di quanto la società italiana sia cambiata appunto nel senso indicato da Paolo VI nel suo storico discorsetto di Castelgandolfo.

Ora, la Chiesa dovrebbe continuare ad accettare una televisione simile? Cioè uno strumento della cultura di massa appartenente a quel nuovo potere che «non sa più cosa farsene della Chiesa»? Non dovrebbe, invece, attaccarla violentemente, con furia paolina, proprio per la sua reale irreligiosità, cinicamente corretta da un vuoto clericalismo?

Naturalmente si annuncia invece un grande exploit televisivo proprio per l’inaugurazione dell’ Anno Santo. Ebbene, sia chiaro per gli uomini religiosi che queste manifestazioni pomposamente teletrasmesse, saranno delle grandi e vuote manifestazioni folcloriche, inutili ormai politicamente anche alla destra più tradizionale.

Ho fatto l’esempio della televisione perché è il più spettacolare e macroscopico. Ma potrei dare mille altri esempi riguardanti la vita quotidiana di milioni di cittadini: dalla funzione del prete in un mondo agricolo in completo abbandono, alla rivolta delle élites teologicamente più avanzate e scandalose.

Ma in definitiva il dilemma oggi è questo: o la Chiesa fa propria la traumatizzante maschera del Paolo VI folcloristico che «gioca» con la tragedia, o fa propria la tragica sincerità del Paolo VI che annuncia temerariamente la sua fine.

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