Classico e contemporaneo a scuola: cosa distingue un’opera d’arte

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Il classico ti fa venire insonnia e nostalgia

L’estate scorsa una mia alunna di 14 anni, alla fine del primo anno, mi scrive una notte di fine luglio:

«Prof, le devo raccontare una cosa. Io sono in campeggio, in vacanza, al mare, e mi hanno detto che mio nonno ha un tumore. Per me è una notizia tremenda, mi faccio mille domande, penso a tutto il tempo che non ho passato con lui e avrei voluto passare con lui e probabilmente mi manca poco tempo. Mi chiedo perché proprio lui che faceva una vita sana. Mi vengono mille domande sulla vita e sulla morte. Mi sento un po’ un verme. Però le volevo dire che c’è una seconda cosa più brutta del tumore di mio nonno: che tutti i miei amici e parenti sanno dirmi solo una cosa: “è estate, sei in vacanza, hai 14 anni, non ci pensare”. Glie lo volevo scrivere perché il mio dolore è il mio dolore e guai a chi me lo tocca. Se non avessimo letto insieme Omero quest’anno, in questo momento io starei ballando mentre mio nonno muore. È una cosa che a me appare disumana, ma evidentemente al mondo sembra normale.»

Secondo me questa mail, grandiosa perché è un esempio di scrittura libera (uno non ti scriverebbe una mail di notte a luglio se non avesse davvero qualcosa da dirti), ci fa capire qual è il valore che diamo ai classici.

Lei dice: io grazie alla lettura di Omero, grazie ad un anno di classici insieme, sto salvando l’umano che è in me, come avrebbe detto Calvino. Cioè che si chiede lo scrittore è: salvare l’umano in un mondo in cui tutto si presenta inumano. Il valore dei classici è anzitutto questo.

Ogni volta che parlo in classe penso sempre che tra quei 25 ragazzi difficilmente c’è qualcuno che si iscriverà a lettere, statisticamente, ma noi non proponiamo di diventare critici letterari.

Perché ha senso leggere l’Addio ai monti? Perché quando ti muore uno che è caro, leggere che «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande», ti entra nelle ossa, ti entra nel sangue.

Perché ha senso leggere La sera del dì di festa di Leopardi? Perché quando un ragazzo torna un sabato sera dopo che tutto è andato bene, non riesce a dormire, e sente che manca qualcosa e non sa cos’è, non c’è né sua mamma, né la sua fidanzata, né i suoi compagni di classe, né nessuno a cui può dirlo, capisce soltanto che un ragazzo di 20 anni duecento anni fa ha sentito come «E fieramente mi si stringe il core / A pensar come tutto al mondo passa / E quasi orma non lascia.»

Noi riconosciamo valore ai classici perché arrivano dove nessuno arriva, ci parlano di quelle cose di cui non parliamo mai, di cui non parla nessuno.

I classici sono quei libri (Dante, Omero, Virgilio, Cicerone, Manzoni, Ungaretti, potremmo arrivare fino ai giorni nostri perché non è una questione di datazione) che val la pena proporre a scuola perché mai tra di noi parliamo di quelle cose che ci urtano, che non ci fanno dormire.

I classici sono quei libri che non ti fanno dormire, che producono insonnia, quei libri che non puoi leggere prima di andare a letto. Io capisco che se leggi Fabio Volo ti prende una botta di sonno e dormi benissimo, ma se tu leggi Dostoevskij o Pavese ti voglio vedere a prendere sonno!

I classici sono quei libri che ti straziano di nostalgia, non ti placano la vita, anzi ti fanno capire che non sei sbagliato, come diceva la mia alunna, «non sono sbagliata ad avere tutte queste domande di fronte a mio nonno». I classici ce lo fanno capire.

Non è Virgilio che ha portato Dante in paradiso, perché i poeti non hanno mai salvato nessuno, non hanno mai dato il paradiso a nessuno. I poeti ti salvano dalla selva oscura, cioè ti mettono in moto.

Tu sei lì fermo, non sai neanche muoverti, sei lì che la vita ti annoia, ti disturba, ti fa schifo, che la vita è tutta uguale, che le mattinate si riproducono tutte uguali, e arriva un poeta e ti fa cominciare a camminare, cioè ti introduce la nostalgia del paradiso, ti fa venire insonnia e nostalgia.

Per cui a me pare che siccome riesce ad arrivare, il classico, in quelle segrete gallerie dell’anima in cui non entra mai nessuno, e perciò è intraducibile un classico, la poesia non si può fino in fondo né spiegare, né commentare, né parafrasare, è un’esperienza conoscitiva di per sé.

Dice Gabriele Lavia, nostro grande attore e regista che l’anno scorso è stato qui al Meeting, non è colpa mia se Shakespeare certe cose le ha scritte 5 secoli fa, non è che è vecchio di 5 secoli, le ha dette per sempre. La vita è troppo breve per perdere tempo con cose e opere che non hanno questa potenza.

Cosa accade a scuola

A me sembra che questa sia una strada percorribile a tutte le età. Io ho deciso di iscrivermi a lettere in 4ª elementare perché avevo un maestro geniale che sarebbe stato radiato da tutte le scuole, è andato in pensione quando io ho finito la 5° elementare e ci faceva imparare a memoria Parini (‘700), La vergine cuccia, Il risveglio del giovin signore, ci faceva imparare a memoria Manzoni a noi che avevamo 9 anni.

E io, mentre imparavo a memoria La vergine cuccia che parla di un servitore che fu cacciato perché non doveva azzardarsi a far male alla cagnetta, nonostante aveva lavorato per 20 anni per quella famiglia. Viene cacciato, viene buttato fuori, lui, la moglie, i figli, senza vestiti e non troverà più lavoro. Io a 9 anni leggendo quella poesia mi commuovevo per un uomo di duecento anni fa, anzi per un uomo inventato.

E non pensavo minimamente al valore edificante della poesia, cioè alla critica contro i nobili: era bello! Era innanzitutto bello. Cioè scoprivo da piccolo – quindi un’esperienza che in tutte le scuole si può fare – che cos’è un’opera, qual è il miracolo di una forma, di una bellezza, di una lingua. E poi scoprivo appunto che potevo commuovermi. Riconoscevo qualcosa in me che c’era già, ma non conoscevo. Conoscere è sempre riconoscere, tu vedi che uno scrittore ha rappresentato ciò che tu porti dentro, ma non sapevi di avere.

Alle medie si fa molto così: si inizia a proporre i brani edificanti. Si fanno leggere libri o brani che dovrebbero insegnare qualcosa: perciò il libro sull’adolescenza, sul bullismo, sul razzismo, sull’omofobia. E i ragazzi pensano: ma se io devo leggere 200 pagine per sentirmi la predica secondo cui se sale una vecchia nel pullman devo alzarmi e farla sedere, me lo potevi dire in 10 secondi, non c’era bisogno che io leggessi il libro, incontrassi l’autore, perché – giustamente Pasolini osservava – nessuno pensa che un assassino, leggendo il racconto su un altro assassino, dirà sempre che “non è giusto uccidere”. La letteratura edificante va sempre a vuoto. Invece – dice Pasolini – il valore della letteratura sta nel fatto che è bello e casomai ti viene addirittura pietà per l’assassino, che non sospetti di avere.

Che la scuola proponga senza esitazione i classici, a mio avviso, è il punto da mettere in discussione perché la scuola, purtroppo, non propone i classici. A scuola purtroppo non si leggono libri, ma si fanno autori, o peggio si fanno paragrafi. E questo è un disastro perché è come parlare di calcio senza aver visto un pallone ma soltanto leggendo la Gazzetta dello sport. È come se anziché mangiare vedessimo sempre MasterChef. È come se anziché sentire canzoni leggessimo Wikipedia su ogni cantautore.

A me pare che il problema sia che molti insegnanti liquidano frettolosamente i classici cercando poi magari altro, perché probabilmente non li fanno mai leggere. Se noi potessimo in primo far leggere l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, in secondo far leggere i Promessi Sposi interi (anziché parlare di Walter Scott, del romanzo storico, della mamma di Manzoni, di queste storie qui…), se noi in terzo leggessimo la Vita Nova intera, se leggessimo il Canzoniere di Petrarca, se leggessimo l’Orlando furioso, secondo me cominceremmo a ragionare.

Io dubito fortemente che gli insegnanti leggano i classici. Non so se un insegnante su cento possiede a casa una copia – non dico dei sonetti di Jacopo da Lentini – della Gerusalemme liberata. Ha mai letto la Gerusalemme liberata per intero?

Il vizio ontologico ci distrugge perché non ci permette di fare – dice Steiner – come se facessimo di tutto per sottrarci dall’incontro con la vera presenza dei testi. Abbiamo paura che i testi ci parlino. È più faticoso ed è più affascinante. Ma è l’unico modo attraverso cui una ragazza di 14 anni può dire: «io voglio salvare l’umano che è in me».

A volte mi sembra che a scuola siamo come i braghettoni: Michelangelo aveva fatto i corpi, lui metteva le mutante. Noi i testi nudi mai: dobbiamo sempre mettere le mutande su tutti i testi. Se gli insegnanti iniziassero a smutandare le opere d’arte, forse inizieremmo a capire qual è il valore dei classici, ricominciando innanzitutto a leggerli.

Quando un insegnante si pone il problema: quali sono i libri contemporanei che posso far leggere? Io ho 9 mesi a disposizione. Se sacrificassi Verga per Erri De Luca, o se sacrificassi Pirandello per Camilleri, ci guadagnerei?
Se io faccio leggere per un mese Elena Ferrante, vuol dire che per un mese non faccio leggere per Montale, per esempio. Il primo problema è un problema di canone.

Il secondo problema: non si può aggiungere. Non posso aggiungere ai classici i contemporanei. Ogni insegnante mi pare faccia così: entra quello di italiano e ha la sua bottiglia da 2 litri di italiano e la versa per un’ora. Alla seconda ora entro quello di matematica: 2 litri di matematica. Alla terza ora entra quello di inglese: 2 litri di inglese. Però il bicchiere del ragazzo ad un certo punto finisce e tu continui a versare alla quarta ora, alla quinta ora, il pomeriggio, la sera. Continui a fargli proposte sperando in studenti obesi di cultura, senza chiedersi mai se hanno sete.

Terzo problema: è difficile, sia per la vastità (200 nuovi libri ogni giorno) sia per come funziona il mercato editoriale, far delle proposte credibili. In mezzo a questi 200 libri che escono ogni giorno, ci saranno dei grandi libri. Il problema è che non è facile andarli a trovare perché la vera alternativa non è tanto tra classico e contemporaneo, ma è tra un’opera d’arte e un prodotto usa e getta.

Noi quando pensiamo al contemporaneo, normalmente, non pensiamo a Corman McCarthy. Noi pensiamo a robaccia. Faccio un esempio di come funzionano le scuole. In Puglia funziona così, ma mi gioco qualcosa che da tante altre parti funziona così.

Saviano scrive Gomorra. Gomorra diventa film. Gomorra diventa serie tv. Gomorra diventa brand. Si fanno un po’ di comparsate in televisione, si fanno un po’ di interventi mediatici. L’attore di Gomorra diventa scrittore. La scuola propone l’incontro con lo scrittore che è l’attore della serie tv di Gomorra. Perché giustamente come funziona? Una mattina dieci insegnanti entrano in dieci classi e dicono: domani 15 euro a testa, 25 copie del libro X, perché se non vendi 250 copie l’autore giustamente non viene.

Queste 250 copie con incontro sull’autore, giuro su quello che volete, in tutte le scuole in cui ho insegnato ho sempre visto che funziona così. L’Italia è una nazione in cui il 59% degli italiani non legge neanche un libro all’anno. In Puglia il 73%. Questi incontri quanto spostano, quanta esperienza di lettura permettono?

Cosa distingue un’opera d’arte da un prodotto usa-e-getta?

Mi pare che la questione principale non sia tanto la distinzione tra classico e contemporaneo, perché se io leggo Giorgio Caproni, che è un classico pur essendo morto qualche anno fa, in Res Amissa (1991) lui dice: tutti riceviamo un dono, poi non ce ne ricordiamo più, conserviamo solo la punta della nostalgia.

Ma se io sento Il Dio delle piccole cose di Max Gazzè, che chiede che un Dio delle piccole cose salvi i respiri sui vetri dei treni in partenza, che salvi i passi di danza che lei ha sbagliato. Qui non conta niente se sono stati scritti due millenni fa, o cinque secoli fa o cinque anni fa.

Conta che sono opere e un’opera è un qualcosa che ci rimette – direbbe Pavese – di fronte al nostro dolore e al nostro mistero. Il prodotto usa-e-getta no. Il prodotto usa-e-getta, che è quello che gira, non ci rimette di fronte al nostro dolore e al nostro mistero, è una chiacchierata al bar.

Beethoven è musica classica, Leopardi è un classico. Poi però un ragazzo sente Marracash o la Dark Polo Gang, o Salmo. Poniamo che Faletti, Fabio Volo, Saviano e company equivalgono a Mannarino e company. Ma c’è del contemporaneo che vale, che è grande.

Poniamo Gaber. Gaber è un classico, a mio avviso è il più grande scrittore italiano dell’ultimo mezzo secolo. Gaber è un classico contemporaneo. Nella narrativa contemporanea chi è Gaber? Difficile cogliere chi è il Gaber della narrativa contemporanea e mi pare che in questo, più che una rassegna dei possibili autori, ci aiuti questa distinzione: cos’è un’opera vera?

Vale a dire: mi pare che il vero problema non sia proporre libri, ma generare lettori. Generare lettori vuol dire generare non solo il desiderio di leggere, ma anche l’intelligenza di leggere, perché per la narrativa contemporanea, come in tutte le epoche, forse nella nostra ancora di più per la mole di produzione, abbiamo bisogno di pionieri, di persone che ci dicano: guarda che questo val la pena di essere letto.

Ho bisogno di suscitare un lettore che abbia un gusto, abbia un orecchio, abbia un ritmo, un palato, tale per cui quando legge certe cose mi possa dire: “prof, questo vale!”. Me lo potrà dire solo se riusciamo a capire che il vero problema è suscitare un lettore, non aggiungere cose.

A me pare che il vero nemico si chiami moda. La moda – giustamente diceva Leopardi – è la sorella della morte, perché sono tutte e due figlie della caducità. Qualche anno fa tutti ballavano Asereje: passato. Molti dei libri che ci spacciano per grande letteratura contemporanea sono come la Danza Kuduro, sono come “dammi tre parole, sole, cuore e amore”. Cioè mi fanno l’effetto baby dance. Sono fatiche sprecate.

Per un ragazzo che non ha mai letto Dostoevskij, Francesco Sole scrive belle frasi.
Per un ragazzo che non ha mai studiato Le Goff, Alberto Angela è uno storico.
Per chi non ha mai sentito Mozart, Allevi è un grande compositore.

Noi viviamo in un periodo di fuffa. Allora non dobbiamo aver paura di andare nel contemporaneo, ma si può andare nel contemporaneo con un criterio, perché un ragazzo che entra in una Feltrinelli, con quale criterio sceglie?

Puoi cominciare dal classico o dal contemporaneo, le strade per ognuno sono diverse. La difficoltà linguistica può attrarre. Pasolini diceva: è come spostare fili d’erba finché trovi l’insetto misterioso. La difficoltà piace.

Ungaretti diceva: io leggevo Mallarmé e litigavo con i miei amici perché i miei amici dicevano: ma non si capisce niente di Mallarmé! E io rispondevo: infatti, non si capisce niente, ma c’è un segreto dentro!

Invece mi pare che ci sia tanta piattezza. Io penso sempre alla scena dei bravi che fermano Don Abbondio. Penso se finisse in mano ad una casa editrice, tutte le digressioni tagliate dei Promessi Sposi, e poi lo immagino già Don Abbondio che risponde ai bravi. I bravi arrivano sgommando: «questo matrimonio non s’ha da fare». Don Abbondio risponde: perché se no che fate? I bravi: ti ammazziamo. E Don Abbondio spara lui prima. E i Promessi Sposi diventano Gomorra, o l’Iliade diventa Baricco.

Perché Baricco ha fatto questo, ha detto: io volevo raccontare l’Iliade, ma ho capito che è troppo lunga per essere raccontata una sera a teatro, cosa taglio? Non posso tagliare scene, allora taglio gli dei, così racconto tutta la trama e non perdo niente. Non è che non perdi niente! Hai fatto Troy, anziché l’Iliade. Hai tolto esattamente quello che rende una grecata diversa da un’americanata.

E questo mi pare sia il punto da non perdere: se noi siamo di fronte ad un’opera o ad un prodotto.

Mi pare che per incoraggiare l’esperienza della lettura noi non possiamo aver paura di una cosa che si chiama libertà. Più che aggiungere litri di cose, più che aggiungere contenuti e proposte, guardare la sete.

Un insegnante deve iniziare a smettere di pensare che parla ad una classe. Parla a 25 persone diverse. Parla a libertà, parla a singoli con cui non ha il problema di farli leggere, perché un ragazzo WhatsApp lo legge tanto. Ci sono delle mamme che regalavano le barzellette di Totti “purché legga qualcosa”. È come dire: mi va benissimo tutto quello che ascolti nelle cuffie, purché tu ascolti un po’ di musica.

No, il nostro problema non è che tu legga o ascolti, ma come leggi, e per arrivare a questo “come”, in cui evidentemente ci possono essere tante scoperte, tanto che non so, gli insegnanti sono quelli dal pensiero incompiuto, dice il Papa.

In questa incompiutezza noi abbiamo bisogno di ragazzi e di lettori capaci non solo di inseguire il mondo, perché la scuola non cambia se aggiorna il canone, se è al passo con i tempi, ma se giudica i tempi ed è capace di scoprire cosa c’è di buono nel nostro tempo e dare una gomitata a quelli che ridono della tradizione.

Noi siamo arrivati nel mondo – dice Pasolini nella Poesia della Tradizione – e abbiamo trovato «chi rideva della tradizione e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda».

Invece un lettore libero sarà in grado di fare l’esperienza che Primo Levi faceva nel campo di concentramento, quando diceva del Canto di Ulisse che quella poesia, che conosceva già a memoria, ma che era vecchia di secoli, parlava proprio del nostro essere oggi qui. Ha scoperto che quel classico è contemporaneo, perché il contemporaneo è un classico che accade o è un libro scritto due mesi fa che accade.

È un lettore che vive la contemporaneità tra la sua esperienza e ciò che legge. Questa è la più bella esperienza di lettura che si chiama anacronismo. Dante è arrivato 7 secoli prima, non è uno vecchio di 7 secoli.

Azar Nafisi racconta cosa sia leggere Lolita a Theran tra le ragazze che ne hanno passate di tutti i colori, è un esempio splendido. Contemporaneo è un lettore a cui accade ciò che sta leggendo.

Cosa si agita nel tuo cuore?

Comincio da un’altra mail: era andato a fare un incontro in una scuola e una ragazza mi scrive subito dopo:

Da 13 anni desidero trovare la voglia di andare a scuola e invece più vado avanti e peggio è. Mi sento stanca e vecchia come se avessi il triplo della mia età. Sono proprio la tipica ragazza che studia perché deve altrimenti la mamma si arrabbia. Il problema è che i professori sono sempre riusciti non solo a farmi passare la voglia di studiare, ma addirittura a liberarmi anche delle mie passioni. Fin da piccola ho sempre adorato scrivere e mi sarebbe piaciuto diventare una scrittrice. Ho scritto interi romanzi rimasti stipati nel mio pc perché non ho mai avuto il coraggio di farli leggere a qualcuno. Una volta cominciato il liceo, infatti, la mia prof d’italiano giudicava i miei temi noiosissimi e le valutazioni basse hanno fatto sì che io perdessi quella passione, smettessi completamente di scrivere e cominciassi a dare loro quello che volevano: la pappardella. L’unico rimedio che ho trovato, o meglio un rifugio da tutta quella superficialità, è stato comprare i grandi classici che studiavo e leggerli per conto mio. Mi sono innamorata di autori che a scuola avevo odiato. Sono una di quelle alunne che giudicava Leopardi un depresso, ma dopo aver provato dolore ho iniziato ad adorarlo come un uomo profondamente innamorato della vita. E nelle opere di Baudelaire e di Edgar Allan Poe la mia frustrazione ha trovato una dimora.

Questo è un esempio di scrittura, cioè di una ragazza che ha sempre voluto scrivere e a cui è stato tolto quasi il gusto di scrivere. Attenzione: perché molto spesso chi è da questa parte della cattedra non sospetta nemmeno che ci sia qualcuno che scriva. Lo vediamo sia in negativo, perché a volte a 16 anni dobbiamo dire:

«Signora, guardi forse suo figlio è disgrafico, sbaglia tutte le doppie.»
«Ma come, non me l’ha mai detto nessuno.»
«Signora, sono sicuro che sbaglia le doppie da almeno 10 anni suo figlio, se nessuno l’ha mai notato che sbaglia 30 doppie in una pagina, è perché nessuno ha mai visto un suo quaderno.»

Il primo problema della scrittura è: ma noi leggiamo quello che scrivono? Chiarisco ancora meglio: una mia ex-alunna, dopo un incontro, ho parlato di Leopardi e ho detto: «scrivimi cosa pensi», perché stava scappando e lei mi ha scritto:

Buonasera prof, quando oggi mi ha chiesto di scriverle cosa pensavo, sono rimasta un attimo sorpresa, perché non so a quando risale l’ultima cosa che io ho scritto senza che dovesse essere valutata.

Cioè ci sono persone che sanno scrivere, ma nessuno legge ciò che scrivono perché le uniche cose che scrivono sono verifiche, sono compiti, e nessuno dice: «ma cosa si agita nel tuo cuore?».

Il problema della scrittura nasce infatti non quando tu conosci come fare a scrivere, conosci le tecniche della scrittura, ma quando tu, innanzitutto, hai qualcosa da dire. Una volta una ragazza, dopo una lezione, mi scrisse:

È la prima volta che alla domanda solita di mia mamma “com’è andata stamattina” non ho risposto “niente”.

Qui comincia il problema nella scrittura perché uno scrive anche perché non vuole perdere ciò che gli è successo, vuole inseguirlo, e il problema “scrittura” è il problema che nasce in un ragazzo quando ha una cosa da dire.

Normalmente alla domanda di cosa hai fatto oggi si risponde “niente” perché non si ha qualcosa da dire, quindi una pagina bianca mi fa paura, è lì che mi guarda, la pagina bianca, guarda me e io devo scappare da quella pagina bianca e posso scappare in tanti modi, posso scappare col telefono, possono scappare con una serie tv, possono scappare perfino con dei libri, rispetto, invece, alla potenza di quello che io ho da dire perché voglio conoscere il mondo, voglio conoscere me.

Io vivo a Bari, come sapete il nostro più grande poeta si chiama Checco Zalone e il nostro più grande calciatore si chiama Antonio Cassano. Né Checco Zalone è uscito da una scuola di scrittura né Antonio Cassano è uscito da una scuola calcio.

Normalmente devi avere qualcosa da dire, vale a dire, non è che tu aiuti a scrivere semplicemente perché dici “domani scrivetemi un racconto”, ma perché fai arrivare sulla punta delle labbra qualcosa che forse qualcuno potrà iniziare a scrivere.

Finché tu non hai certe cose sulla punta delle labbra e devi trovare il modo di dire e benedetti i balbettamenti, le interrogazioni più belle, i dialoghi più belli in classe sono quelli in cui i miei alunni si fermano perché iniziano a farfugliare, non sanno bene cosa dire, non usano il linguaggio specifico (direbbero i miei colleghi), non hanno la lezioncina pronta, non sono per fortuna diventati ottimi ripetitori di paragrafi o, come diceva un grande neuroscienziato, li prendiamo che sono macchine non banali e il compito della scuola è trasformarli in macchine banali, capaci di dare le risposte che noi cerchiamo, invece è bellissimo quando balbettano, hanno qualcosa da dire che è più grande del modo in cui lo sanno dire, tra l’altro mi pare che questo fosse il problema per cui i classici invocavano le Muse, perché avevano qualcosa da dire più grande dei mezzi che possedevano.

Benedetti balbettamenti. Io la più grande figura retorica che ho incontrato nella vita non l’ho incontrata in un classico né in un contemporaneo, ma ho incontrato un mio alunno, Checco, che ha avuto una sorte stranissima perché quando stava per cominciare il quinto anno ha fatto un incidente banale, ma è rimasto paralizzato.

È un ragazzo che giocava a pallone, è rimasto paralizzato e dopo un anno e mezzo di questa lotta incredibile per poter muovere in piscina di un millimetro le gambe, dopo questa lotta terribile ha avuto la leucemia. Poi si è trovato a 20 anni a scrivermi:

Prof io avevo cominciato una seconda vita da paraplegico, adesso questa cosa è una terza vita? Mi hanno detto che ho il 70% di possibilità di morire.

E un giorno, prima del trapianto di midollo, mi ha scritto:

Sono da una settimana a Genova, ho iniziato l’ultimo ciclo per il trapianto che finirò tra due giorni, dopo di che un giorno di pausa e poi il trapianto vero e proprio che farò fra tre giorni. Sto bene.

“Farò il trapianto fra tre giorni” e “Sto bene” è il più grande ossimoro che esista nella storia della letteratura dal mio punto di vista. E non l’ha fatto perché voleva fare l’ossimoro, l’ha fatto perché la realtà l’ha così interpellato che sulla punta delle labbra lui ha cominciato a cercare una parola, ha trovato quello che mancava.

Perciò mi pare che scrivere senza dover essere valutati, cioè provare a trasformare i fatti che ci succedono, le cose che incontriamo in parole, sia quello che dobbiamo provare a spiare, se almeno conosciamo i nostri ragazzi, e conoscerli non vuol dire parlare.

Io dico sempre che forse un insegnante andrebbe valutato per due questioni invalutabili:

  1. ma tu non vedi l’ora che arrivi lunedì o il sabato?
  2. ma tu riusciresti a parlare della tua materia non da una cattedra col registro, ma un sabato sera alle 11 a 25 adolescenti o a 25 ragazzi o 25 bambini?

Se riesci a parlare può succedere che qualcuno di loro, liberamente, perché il problema è il “liberamente”, cioè il sabato sera, l’intimo, le cuffie, il problema è cosa succederà, non cosa succede nella facciata, perché uno scrive e li tiene nascosti, il problema è cosa succede nel segreto.

Allora se succede qualcosa può darsi che, nel segreto, qualcuno dei nostri alunni stia già scrivendo e allora noi abbiamo la possibilità di essere veramente quelli che imparano mentre insegnano perché scopriamo di avere davanti a noi ragazzi che scrivono meglio di noi e a cui non dobbiamo insegnare a scrivere.

Forse possiamo sostenerli a dire “leggi grandi scrittori”, “frequenta quelli che ci stanno provando come te e sono vivi”.

Spesso l’equivoco è che chi vuole scrivere ha grandi sentimenti dentro e crede che scrivere sia rovesciare ciò che ha dentro sulla pagina. Non ha capito che Flaubert metteva le pantofole di pezza ai piedi degli scrivani perché uno scrittore di narrativa mette pantofole di pezza ai piedi degli scrivani, non ti parla dei suoi sentimenti, e questo si può in qualche modo cercare di evocare mentre leggiamo con loro, mentre proviamo a leggere ciò che tengono segreto e magari iniziano a fidarsi di noi, ce lo fanno leggere.

Dante poi voleva dire “ti amo” a Beatrice e ci ha messo 14.000 endecasillabi quindi il modo in cui uno scrive è insospettabile.

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