Il caso serio: io chi sono? Fragilità e identità sessuale.

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[Francesco Ognibene]

C’è da elogiare il metodo che ci insegna il Centro Culturale che ci educa sempre al pensiero complesso, cioè capace di attrezzarsi per affrontare la complessità che è la dimensione, la cifra del nostro tempo, di questa era neomoderna – come è stata definita da Adriano Fabbris recentemente, ma non solo da lui – che ci pone di fronte a delle questioni che sembrano volte a noi credenti, ma non soltanto, come se fossero inafferrabili.

Non so se avete questa sensazione. A me capita spesso, di fronte al discorso pubblico, soprattutto quello veicolato e semplificato dai media, di non riuscire ad afferrare i termini esatti della questione. O meglio di vederli, ma di capire che non è tutto lì. Non può essere tutto lì, è tutto troppo semplificato.

Io faccio il giornalista ad Avvenire. Cerchiamo noi di articolare un pensiero un pochino più argomentato, più complesso, ma molto spesso siamo costretti comunque a scendere a compromessi per cercare di arrivare al nocciolo della questione; confrontarci in campo aperto con chi, su grandi temi di attualità, etici, relativi anche all’identità dell’umano, ci sfida con degli argomenti molto semplici, molto diretti, molto persuasivi anche.

A volte c’è un po’ la sensazione di non avere parole a sufficienza, non avere parole proporzionate alla complessità, da una parte del tema e dall’altra degli argomenti che vengono posti sulla scena pubblica da altri che la pensano in modo diverso sull’umano.

Siamo qui, invitati dal Centro Culturale di Milano e dall’amico Camillo Fornasieri, per una sorta di scuola di pensiero. Un pensiero complesso, originale, libero, informato, consapevole perché si confronta con la realtà. La grande scuola della realtà vale per il giornalismo, per chi si occupa di qualunque professione. La realtà ci educa, la realtà ci chiama.

Vogliamo confrontarci questa sera una volta ancora con la realtà, qualunque sia, e verremo aiutati da esperti in materia di identità, identità sessuali in modo particolare. Quello che ci ha scritto Camillo in un tweet in questi giorni dice: «conoscere e sostenere la libertà nel deserto che lasciano ideologie facili e impersonali», che mi sembra una buona sfida per questa serata.

Quello che vediamo attorno a noi sono grandi questioni che ci stanno sfidando: le questioni bioetiche, il rapporto con la tecnologia (pensate all’intelligenza artificiale, con la scienza e la sua pretesa di onnipotenza), la cultura dei diritti e anche dei desideri. Al fondo di tutto, però, c’è la grande domanda che le governa e le precede tutte: «Io chi sono?».

La grande domanda sulla nostra identità oggi. Posso essere veramente – come mi dicono – tutto quello che voglio o esiste un limite? E, se c’è, in nome di cosa oggi me lo possono imporre? Questa è anche la grande domanda che sentiamo dentro di noi, per quanti principi noi possiamo apprezzare.

È come se fossero un po’ venuti meno gli assoluti che sono stati anche ribaltati: la persona, la dignità, la libertà, gli stessi diritti sono stati un pochino capovolti e sembrano essere friabili, per cui io in che modo posso ricostruire la mia identità nel momento in cui attorno a me sembra che tutto sia possibile e io stesso possa essere – mi dicono – quello che voglio?

Da una parte sperimentiamo il limite che ci viene in qualche modo imposto dalla nostra stessa natura. Ce lo siamo anche visti ricordare in modo un po’ rude dalla pandemia, dalla guerra, dalle grandi crisi globali.

C’è un limite evidentemente, rispetto al quale, però, la cultura attuale è molto insofferente. È come se ci volessero sempre dire che questo limite non è fatto per essere rispettato; noi siamo fatti per andare oltre. Sappiamo benissimo che noi siamo fatti per andare oltre, ma sembra quasi che ci suggeriscano sempre di poter essere onnipotenti, di poter desiderare qualsiasi cosa come se fossimo un po’ insaziabili.

Allo stesso tempo ci si scopre enormemente fragili. La categoria della fragilità, se ci fate caso, con il Covid in particolare, è rientrata in grande stile nella nostra società con l’idea che vadano tutelati innanzitutto i più fragili. La fragilità degli adolescenti, dei ragazzi che hanno dovuto misurarsi con grandi questioni che li hanno fatti scoprire molto più fragili di quello che noi pensavamo.

Quindi da una parte l’idea dell’onnipotenza: posso essere e fare quello che voglio. Dall’altra questa clamorosa e sfidante fragilità. Questo uomo super-uomo ma anche super-fragile si trova ad un bivio, si trova in una grande difficoltà a vivere la sua stessa identità.

Stasera esaminiamo un caso serio relativo all’identità, cioè sull’elemento costitutivo fondamentale: l’appartenenza ad un sesso che ci caratterizza, ci segna, ci contraddistingue.

Il sesso maschile e femminile quanto è determinante? Può diventare un limite insostenibile come ci viene detto, una prigione addirittura, da cui si vuole poter fuggire? Si ha diritto di poter fuggire, addirittura con un riconoscimento pubblico? È un fattore negoziabile oppure è un dato di fatto che resta a marcarci in modo indelebile e con il quale comunque dobbiamo sempre fare i conti?

La cosa che si osserva dal punto di vista del dibattito pubblico è che molto spesso su questi temi si fa fatica persino a parlare pubblicamente. Veniamo come sistematicamente zittiti. È questa la prima ribellione che mi viene da dire. Dobbiamo in qualche modo dar vita – in modo pacifico, evidentemente – ad un dialogo sempre aperto, ma nel nome di buoni argomenti che anche questa sera verremo aiutati a immagazzinare, incamerare da interlocutori di prim’ordine.

Ci sono fatti recenti che io brevemente vi ricordo perché sono quelli davanti ai quali senz’altro tutti noi ci siamo sentiti interpellati. Voi pensate soltanto all’ultimo episodio, l’ultimo fatto di cronaca che poi è partito proprio qui da Milano, della vicenda della registrazione all’anagrafe dei figli nati da coppie omogenitoriali.

Quanto pesa il maschile e il femminile, la complementarietà dei due sessi nel crescere una creatura umana, nel dargli una casa in questo mondo? È così irrilevante come ci dicono? È la stessa cosa, conta l’amore? Oppure ha ancora un rilievo l’identità sessuale?

Poi altri fatti recenti come la legge spagnola cosiddetta “Ley trans” per cui, da qualche mese a questa parte, è possibile presentarsi all’anagrafe e dire: mi sento uomo o donna e avete l’obbligo di registrarmi all’anagrafe così come mi sento io.

Oppure la lettera della SPI (Società psicanalitica italiana) al governo, firmata dal presidente, in cui, relativamente alla disforia di genere, cioè alla riattribuzione del sesso diverso rispetto a quello di nascita degli adolescenti in età puberale, viene espressa grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzata a produrre un arresto dello sviluppo puberale e si denuncia che la sperimentazione in atto in Italia elude un’attenta valutazione scientifica chiedendo una rigorosa discussione.

Quindi è un tema che riguarda anche Mariolina Ceriotti Migliarese nella sua professione di psicoterapeuta. Riguarda anche i clinici che si trovano a confrontarsi con questo problema di identità sessuale.

Recentemente è stata pubblicata la nota del gruppo di studio di bioetica, presso l’Ufficio Pastorale della salute della CEI, in cui Don Alberto Frigerio ha avuto una parte in inglese su transgenderismo e transessualità, che trovate sul sito della Conferenza Episcopale, in cui si dice che la questione transgender suggerisce non già di affrancare il gender dal sex, ma piuttosto di guardare all’elemento biologico come un dato che non predetermina meccanicamente il processo psicologico e spirituale, però lo indirizza lasciandovi tracce indelebili. Anche questa è una riflessione che è stata fatta. Una serie di episodi di cronaca, di documenti, di riflessioni che documentano come questa sia una faglia significativa del nostro tempo.

Ci aiuteranno questa sera a riflettere gli ospiti che abbiamo, a cominciare da Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile, che è stata già ospite del Centro Culturale di Milano, psicoterapeuta con esperienza vastissima, oltre che di genitore e di nonna, anche con un’esperienza clinica relativa a questi temi.

Ha curato rubriche pluriennali su Avvenire: “L’alfabeto degli affetti”, “Perfetti imperfetti” che sono state poi tradotte in libri. Recentemente ha pubblicato con Ares “Padri e figli I sentieri della paternità”, con una riflessione sul maschile, sul paterno che segue poi un’altra riflessione sul femminile, erotica e materna.

Don Alberto Frigerio, sacerdote dello Diocesi di Milano, teologo, medico con un master in neuroscienze a Edimburgo. Specializzato in teologia del matrimonio e della famiglia al Pontificio istituto Giovanni Paolo II. Docente di etica della vita presso l’Istituto di scienze religiose superiore di Milano. Coordinatore del master sulla spiritualità della cura e autore del libro, edito da Glossa, L’enigma della sessualità umana che è uno studio su queste materie di cui ho cercato un po’ di dare un contorno introduttivo.

Il Cardinale Scola sarà collegato con noi, arcivescovo emerito di Milano, un maestro, un punto di riferimento. Monsignor Luca Bressan farà un saluto introduttivo, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi. Docente di teologia pastorale alla facoltà teologica.

[Don Luca Bressan]

Dobbiamo sostenere questa riflessione e questo dibattito. Lo dobbiamo fare per la nostra fede, per il nostro futuro, per il futuro delle nostre famiglie e quindi ringraziare anche Don Alberto Frigerio che ci aiuta e ci permette di camminare su sentieri che, effettivamente, richiedono il coraggio dell’esploratore proprio per essere all’altezza non solo della Fede, ma anche dei temi che viviamo.

Ho immaginato un piccolo saluto introduttivo che, prendendo spunto dalle riflessioni di Don Alberto, ci offre cinque motivi per seguirlo e darci energie per ascoltarlo dopo e seguire il dibattito.

5 spunti per affrontare la questione

Partiamo dall’idea fondamentale che la cultura che viviamo rende l’identità sessuale un enigma bellissimo, ma che va esplorato, va letto perché richiede effettivamente una ragione, un sentimento all’altezza dell’enigma che vogliamo esplorare. Quali sono i cinque motivi?

Cambiamento d’epoca

Il primo lo prendiamo direttamente dal Papa, dal suo grande concetto che ormai ha sviluppato da tanto tempo: «cambiamento d’epoca». Qui vi prendo una frase in cui applica questo cambiamento d’epoca alla nostra stessa Fede: «non siamo più in un regime di cristianità perché la Fede, specialmente in Europa ma pure in gran parte dell’Occidente, non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune».

Il cambiamento d’epoca pone seri interrogativi riguardo all’identità della nostra fede. Siamo chiamati, come cristiani, a rigiocare a ridire la nostra fede a noi stessi e agli altri proprio per abitare in modo serio, essere cristiani adulti in questo cambiamento d’epoca.

La riflessione di Slavoj Žižek

Il secondo motivo lo rubiamo a un pensatore invece eccentrico, che dà molto a pensare, come Slavoj Žižek. Pubblicò questo testo, ormai 12 anni fa, intitolato Vivere alla fine dei tempi. Lui che usciva dal pensiero marxista, criticando il capitalismo che ha vinto sul marxismo, dice che:

«Occorre imparare a vivere in modo non apocalittico questo tempo escatologico. Il progresso tecnoscientifico ha reso possibile e reale il progetto filosofico di un mondo affrancato dalla trascendenza».

Effettivamente oggi possiamo realizzare quello che filosofi e pensatori a fine 800 immaginavano soltanto, quindi spetta a noi essere all’altezza di questi tempi ultimi, a non entrarci in modo isterico, ma entrarci in modo adulto e responsabile.

La lettera dei vescovi scandinavi

Un frutto di questi tempi ultimi, ad esempio, è la recente lettera pastorale pubblicata in occasione della quinta domenica di Quaresima dai vescovi scandinavi dove, con molta serenità, affrontano la questione che dibattiamo anche questa sera riportando una frase molto significativa:

«una visione della natura umana che astrae dall’integrità incarnata della persona, come se il sesso fosse qualcosa di accidentale. E ci opponiamo quando tale visione viene imposta ai bambini come una verità provata e non un’ipotesi ardita, e imposta ai minori come un pesante carico di autodeterminazione al quale non sono preparati.»

Perché questa è la sfida. Soprattutto le giovani generazioni hanno davanti una libertà che richiede una responsabilità che effettivamente li lascia soli. Non vede gente che li prepara. Come entrare in tutto questo?

Lo spirito del Concilio

Il discorso di chiusura del Concilio di Paolo VI ci dà una bussola importantissima:

«La religione del Dio che si è fatto uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio.»

Anche noi dobbiamo vivere questa spiritualità, essere capaci di un confronto serio, ma un confronto in cui vince l’uomo, così come l’ha immaginato Dio. Il giorno prima del discorso di Paolo VI veniva approvato l’ultimo documento, la Gaudium et spes. Nel documento, al numero 44, si dice:

«La Chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale umana, non come se le mancasse qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi.»

Perché entrare in queste questioni nuove? Perché alla fine ci guadagniamo anche noi. Conosceremo meglio chi siamo, conosceremo meglio il Dio che ci ha creati e che ci ha salvato. E offriremo questa conoscenza al mondo. Per cui tutti cresceremo.

Rendere ragione la Fede

Mons. Luca Bressan, vicario episcopale.

Arriviamo così al quinto compito che è importante perché anche la Diocesi di Milano si prepara a questo evento. Nel 2025 celebreremo il Giubileo, ma soprattutto il diciassettesimo centenario di Nicea, il primo Concilio che scrisse una professione di Fede.

In un momento difficile, riuscirono a dir la loro Fede in una cultura che era nuova e quella Fede ci ha generato. Anche noi abbiamo quel compito: renderla ragione. Perché, come dice sempre il Concilio, possiamo aiutare noi gli altri «affinché la Fede in Cristo e la vita della Chiesa non siano già elementi estranei alla società in cui vivono, ma comincino a permearla e a trasformarla».

[Francesco Ognibene]

A volte bisogna ricordarsi perché entrare nelle questioni nuove, perché c’è un po’ una tendenza alla fuga, no? Troppo complesse. Sembra che la cultura dominante abbia ragione, perché tutti l’ascoltano ed è difficile argomentare in modo diverso.

Però c’è un buon motivo per entrarci, non soltanto perché sentiamo tutti un dovere di presenza, ma per conoscere meglio noi stessi e forse per riuscire a dare una parola che sia pubblicamente spendibile e interessante per tutti perché tutti possano tornare a conoscere meglio se stessi confrontandosi con la realtà.

Però la questione è piuttosto difficile perché non sembra che ci sia una grande disponibilità ad ascoltare. Don Alberto ne fa anche un po’ esperienza perché ha affrontato la questione dell’identità sessuale più volte. Questo libro è un po’ la summa dell’enigma della sessualità umana.

Verrebbe da chiederti: ma chi te l’ha fatto fare? Perché si entra in un ginepraio senza fine, però certo tu hai gli argomenti e gli strumenti per riuscire a farlo, ma a che cosa porta la tua riflessione e perché hai voluto scrivere questo libro?

[Don Alberto Frigerio]

Chi me l’ha fatto fare? Il desiderio, innanzitutto per me, poi per le persone che incontro nei diversi contesti in cui presto il mio servizio pastorale, in oratorio, a scuola, in università.

L’intento è quello di vivere la mia Fede in un modo intelligente, maturo, capace di comunicare le proprie ragioni all’interlocutore, chiunque esso sia. La questione della sessualità è una questione decisamente premiante del tempo presente.

Un’autrice, Luce Irigaray, diceva che ogni epoca ha un solo tema da pensare, una sola questione e la questione del tempo presente è quella della differenza sessuale che è il grande imputato soprattutto per quel che riguarda la “teoria gender”.

La cornice culturale della crisi identitaria

Don Alberto Frigerio, sacerdote, teologo e medico.

Ora io, in questo primo intervento, vorrei provare a offrire la cornice culturale entro cui noi siamo chiamati a misurarci con queste tematiche e richiamare le ragioni di quella che è – come un allievo di Freud, Erick Erickson, nel ’68 ha definito – una crisi identitaria dove per “identità” si intende il senso del proprio essere continuo nel tempo e differente dalle altre entità.

L’incontro di questa sera fa riferimento proprio alla fragilità identitaria e il mio intento è provare a offrire alcuni elementi per collocarci in maniera seria e intelligente nel contesto odierno.

Poi, in un secondo momento, farò brevemente la recensione di tre paradigmi della sessualità umana per offrire una ricomprensione matura nella prospettiva della differenza sessuale come dato costitutivo e strutturante la persona.

Per quanto riguarda la crisi d’identità io credo che si debba anzitutto registrare questo dato, cioè una serie di mutamenti storico-culturali davvero epocali.

Pensiamo alla civiltà delle reti, ai flussi migratori, alla globalizzazione, al processo di pluralizzazione della società. Sono questi tutti elementi che costituiscono, o meglio contengono un grande potenziale.

Basti pensare al possibile reciproco arricchimento nell’incontro tra popoli e culture, però al tempo stesso, dal punto di vista identitario, costituiscono una sfida decisiva perché parlare di questi dati significa parlare di un certo disorientamento, di una disappartenenza, di uno spaesamento, di una estraneità.

4 cause di disorientamento identitario

Ora questa crisi identitaria si dettaglia in maniera eminente a livello della sessualità. Non a caso, almeno nel contesto occidentale ma non solo, anche in diversi paesi orientali si assiste al diffondersi della sessualità fluida che è ascrivibile a una pluralità di cause. Vorrei richiamarne in particolare quattro.

Liberalizzazione sessuale

Anzitutto la crisi della famiglia che è connessa al diffondersi delle istanze promosse dalla rivoluzione sessuale che mina i processi di identificazione primaria e ostacola la comprensione di sé. Crisi della famiglia che peraltro è legata alla compromissione della figura paterna. Pensiamo a quanto Jacques Lacan nel ’68 diceva riguardo alla evaporazione del padre.

Libertà in termini assoluti

Il secondo motivo di disorientamento identitario per quel che riguarda la questione sessuale è la concezione moderna della libertà che è intesa in termini assoluti. Libertà che potrebbe dunque disporre di tutto, anche della propria corporeità. È quanto esprime in maniera assolutamente nitida l’esistenzialismo radicale.

Jean-Paul Sartre, filosofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario francese.

Jean Paul Sartre diceva che il principio primo dell’esistenzialismo è che l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questa concezione poi si dettaglia a livello della prospettiva gender, ma anche della prospettiva post e transumana con cui ci sono evidentemente degli addentellati antropologici. Gender, post e transumanesimo che appunto paventano una manipolazione illimitata della natura anche anzitutto della natura umana.

Modelli imposti

Un terzo motivo che rende ragione della difficoltà, in particolare tra i giovanissimi, nello sviluppo della identità sotto il profilo della propria sessualità, riguarda il contesto culturale che veicola modelli permissivi, anzi indica alcuni modelli, appunto ascrivibili alla mentalità gender, come modelli di riferimento e questo produce inevitabilmente un effetto disorientante in particolare sulle fasce d’età più giovani.

Capitalismo e mercificazione

Quarto e ultimo motivo di disorientamento identitario possiamo collegarlo al diffondersi della mentalità capitalista che pensa il soggetto come flessibile, fungibile, plastico e dunque lo riduce a mercanzia, oggetto di scambio, come già aveva profetizzato Ivan Illich, il padre dell’ecologismo contemporaneo.

E come ha detto in tempi più recenti un pensatore piuttosto particolare ma, a mio avviso, con tanti aspetti molto significativi: il pensatore francese Michel Onfray. Pensiamo, per quanto riguarda la concezione mercantile della persona, all’annosa questione della surrogata o alla manipolazione corporea.

Questa è la cornice dentro cui siamo chiamati a muoverci: crisi d’identitaria che poi si dettaglia e si declina, con particolare tensione, a livello della sessualità.

I 3 modelli di lettura della sessualità

Arriviamo ora alla seconda parte del mio intervento, cioè la recensione dei tre modelli di lettura della sessualità.

Modello culturalista

La visione fluida della sessualità è sottesa e veicolata dalla prospettiva gender, dalla teoria del genere o gender theory. Le teoriche del gender seguono percorsi anche diversificati, talvolta conflittuali, però c’è un nucleo comune che consiste nella denaturalizzazione della sessualità che viene ricompresa in termini meramente culturali.

Gayle Rubin, antropologa statunitense.

C’è un’espressione icastica – che io utilizzo per descrivere il nucleo della teoria gender – che appartiene a Gayle Rubin, una pensatrice statunitense che nel 1975 scrisse: «Il sogno che trovo più stimolante è quello di una società androgina, senza genere, ma non senza sesso, in cui l’anatomia individuale sia irrilevante ai fini di chi si è, cosa si fa e con chi si fa l’amore». Questa è la teoria gender: l’anatomia, cioè l’essere maschio o femmina sarebbe irrilevante, privo di significato riguardo chi si è, cosa si fa e con chi si fa l’amore.

Ora la teoria del genere, è bene precisarlo, coglie un aspetto prezioso della sessualità umana. Essa, diversamente dagli animali, non è guidata da processi biologici istintuali, motivo per cui non tutto nella sessualità è ascrivibile al dato biologico. Detto altrimenti, l’identità e l’orientamento non sono un’inevitabile estensione del dato biologico, come attestano appunto l’esistenza della condizione transgender e omosessuale.

Modello biologista

In tal senso la teoria del genere, che abbiamo descritto e definito come paradigma culturalista, invita giustamente a correggerne uno molto presente nel contesto neuroscientifico che è il paradigma biologista: born that way theory. Si nasce in questa maniera.

Teoria secondo cui, appunto, anche nella sfera della sessualità tutto sarebbe causato da antecedenti biologici di ordine genetico endocrinologico che agirebbero a livello della programmazione cerebrale precoce correlata a una certa identità di genere o a un certo orientamento sessuale.

Ora è evidente che questa lettura biologista è fallace perché manca di cogliere la complessità della vicenda umana. L’essere umano è oltre la natura e, tuttavia, non è al di fuori della natura.

Modello personalista

Qui arriviamo al terzo paradigma. Se la teoria del genere coglie un dato centrale, cioè che non tutto nella sessualità è meccanicamente prodotto dal dato biologico, non è neppure corretto asserire – come invece abbiamo ascoltato da Gayle Rubin – che il dato biologico sarebbe irrilevante, a motivo di un dato costitutivo, cioè di un nesso costitutivo tra corpo e natura, tra biologia e cultura.

È quanto asserisce il cosiddetto paradigma personalista, dove col termine “personalista” intendo riferirmi a una lettura della condizione umana che tiene conto in unità il dato biologico e il dato spirituale. Corpore et anima humus recita il Concilio di Vienna.

Ora questa prospettiva personalista si pone come terza via rispetto al paradigma biologista e culturalista e aiuta a leggere, a mio avviso, in maniera adeguata la sessualità umana. Che cosa dice questa prospettiva? Che l’essere umano ha, ma al contempo è il suo corpo attraverso cui si apre al mondo e il mondo si apre a lui. La fenomenologia parla di “punto zero”.

D’altra parte ciascun soggetto vive ed esperisce la propria corporeità in termini maschili o femminili, motivo per cui il maschile e femminile inevitabilmente si aprono, si dispongono ad abitare il mondo secondo due forme specifiche e caratteristiche.

Potremmo dire che il maschile vive il rapporto col mondo nella forma della trascendenza e penetranza, il femminile nella forma dell’accoglienza. Sono tanti gli autori e le autrici che potremmo convocare per supportare questa tesi. Ne richiamo una che ho già citato in precedenza, Luce Irigaray, femminista del femminismo della seconda ondata: il “femminismo della differenza”. Mentre la gender theory è ascrivibile al “femminismo della indifferenza”, ma su questo non mi dilungo.

Luce Irigaray, filosofa, psicoanalista, linguista e femminista belga.

Luce Irigaray scrive: «È evidente che la morfologia corporea del femminile e del maschile non sono le stesse e, di conseguenza, il loro modo di percepire il sensibile e di costruire lo spirituale non è lo stesso». Perché “di conseguenza”? Perché il biologico nell’essere umano è anche simbolico, dischiude un orizzonte di senso.

L’elemento biologico, cioè l’essere maschio o femmina, essendo pregnante dal punto di vista simbolico non predecide (diversamente da quanto vorrebbe il paradigma biologista), però orienta (diversamente da quanto invece sostiene il paradigma culturalista) la crescita soggettiva e la modalità in cui il soggetto abita il mondo.

Detto in altri termini: la crescita, anche sotto il profilo della sessualità soggettiva, si avvia dalla natura (“natura” che in questo caso anche proprio maschile e femminile) che costituisce il potenziale di sviluppo del soggetto. E tale maturazione si realizza in forma piena quando il soggetto assume responsabilmente il dato biologico.

Julia Kristeva, linguista, psicanalista, filosofa, scrittrice e femminista francese.

È quanto, per esempio, ha rilevato – anche qua mi piace citare un’altra femminista – Julia Kristeva, secondo cui si diventa uomini e donne sul fondo della potenzialità che la nascita dischiude. Questa è la formula di Kristeva. Si nasce donna e si diventa un «io femminile». Idem evidentemente per l’uomo.

Nella stessa direzione va Jacques Lacan. La prospettiva lacaniana, che parla di processo di sessuazione in riferimento al transito dall’essere maschio o femmina – il biblico “maschio e femmina li creò” – al divenire uomo o donna.

Il paradigma personalista della sessualità umana pare comprovato almeno indirettamente da un dato e cioè dal fatto che un eventuale disallineamento tra i livelli di cui si compone la sessualità umana (sesso, genere e orientamento – cioè sesso: l’essere maschi o femmine – genere: sentirsi ragazzo o ragazza, uomo o donna – orientamento: provare un’attrazione erotica o sessuale verso un determinato soggetto), un’eventuale disallineamento tra questi registri mina l’unità dell’io, motivo per cui tale disallineamento ha inevitabilmente una ricaduta sul vissuto del soggetto, qualunque sia la ragione da cui origina.

Ricadute che evidentemente variano a seconda dello stile di vita adottato anzitutto sotto il profilo della sessualità, a dispetto dell’idea corrente secondo cui ogni comportamento, ogni postura sessuale sarebbe una semplice variante della sessualità e sarebbe prolifico purché voluto dal soggetto.

Motivo per cui il soggetto, certo sostenuto dalla comunità in tutte la sue sfaccettature (comunità famigliare, sociale, scientifica, religiosa), ha il compito, a volte doloroso ma sempre umanamente prolifico e fecondo, di vivere in fedeltà il proprio essere sessuato in termini maschili o femminili e di assumere l’apertura all’altro sessualmente differente che questo implica.

Lo dico in un altro modo, in termini molto esperienziali. Ciascuno di noi ha sempre davanti a sé un modo differente di essere un essere umano assai inaccessibile: il maschio la donna e la donna il maschio. Questo costituisce un limite perché nessuno di noi può essere il tutto dell’essere un essere umano, ma costituisce al tempo stesso una ricchezza perché, di fatto, rappresenta l’invito, la chiamata (il termine più preciso sarebbe «vocazione») ad aprirsi all’altro sessualmente differente per raggiungere ciò che da soli non si è, né si è in grado di perseguire.

In questo modo si staglia il senso della sessualità umana che non è un dato indifferente, irrilevante come vuole la teoria del genere, ma costituisce questa chiamata alla comunione generativa. Perché il maschile e femminile? Perché l’essere umano è chiamato a vivere una chiamata alla comunione generativa al modo del Dio di cui è immagine.

[Francesco Ognibene]

Verrebbe da dire, Mariolina, sulla sottovalutazione della differenza sessuale tu vedi sicuramente nella tua esperienza clinica quali sono gli effetti soprattutto sui ragazzi e sulle persone in formazione. Perché siamo avvolti in questa nube, questa insistenza sul fatto che, tutto sommato, tra maschio, femmina, gender fluid… non c’è una reale differenza.

In che modo incide sulla personalità dei ragazzi che poi vedi anche nella tua attività clinica?

[Dott.ssa Mariolina Ceriotti Migliarese]

I punti che vorrei sottolineare sono due. Uno riguarda proprio la posizione adulta, quindi tutti questi discorsi che noi facciamo sono volti a mettere in chiaro che il problema intanto riguarda tutti noi, non è un problema che riguarda altri o che riguarda la cultura in senso neutro, generale, ma riguarda ciascuno di noi in quanto genitore, in quanto educatore, in quanto persona che ha a che fare con i ragazzi che crescono.

Il dominio dell’emotività sul pensiero

Questo rende la questione urgente perché, più di quanto noi non ci rendiamo conto, i nostri figli sono immersi in un modo “di sentire”, non direi neanche “di pensare” perché non si arriva facilmente al pensiero su questi argomenti, ma sono immersi in un modo di sentire per il quale l’indifferenziazione sessuale è diventata abbastanza un dato per loro.

Quindi se si parla con i nostri figli e quei ragazzi nostri – non penso ai ragazzi che vengono da altre famiglie o da contesti differenti – scopriamo che certi concetti sono un po’ sdoganati, quindi il fatto che si possano amare persone del proprio sesso, il fatto che forse non c’è niente di sbagliato nell’avere figli in una coppia omogenitoriale, il fatto che se uno non si sente a proprio agio nel proprio corpo può chiedere cambiamento di sesso, ecc…

Questioni che noi adesso ci stiamo ponendo come pensieri, per quanto riguarda la generazione dei nostri figli sono questioni che, dal loro punto di vista, sono ovvie. Questo è importante che noi lo diciamo e lo sappiamo perché la prima cosa che dobbiamo fare è renderci molto più consapevoli di che cosa noi possiamo sostenere di differente da questo, con quali argomenti che non siano argomenti solo teorici, alti, belli ma poco traducibili a dei ragazzi che sono dentro un sentire completamente differente spinto dalla cultura che ci circonda.

Perché voi lo vedete bene che qualsiasi trasmissione televisiva e anche le cose più semplici, più normali, danno ormai per scontata una serie di cose che noi stiamo cercando di non dare per scontate.

E lo fanno non attraverso un pensiero o un’argomentazione, ma attraverso la diffusione di un sentire molto legato all’emotività e alle emozioni. E questo spiazza chi vuole pensare. Quindi il mio primo argomento è che dobbiamo, in maniera forse semplice ma non banale, darci le ragioni di ciò che diciamo per poter collocarci in maniera corretta nelle questioni educative.

Il valore della differenza sessuale

Credo che dobbiamo rispondere, ciascuno col proprio pensiero e con la propria responsabilità, a 3 domande:

  1. La differenza sessuale esiste sì o no? E dobbiamo prendere posizione.
  2. La differenza sessuale, se esiste, in che cosa consiste? Cioè noi adulti sappiamo rispondere a questo?
  3. Se la differenza sessuale esiste e riusciamo a dirci in che cosa consiste, dobbiamo prendere posizione rispetto al fatto che abbia o non abbia un valore.

Perché si potrebbe anche dire che la differenza sessuale esiste, che riusciamo a capire più o meno in cosa consiste, ma che non ha un valore. Se noi, come adulti, riteniamo che la differenza sessuale non abbia un valore o non sappiamo darle un valore chiaro dentro di noi, non ha nessun senso immaginare di educare i figli nella differenza e alla differenza.

Perché il nostro compito è poi occuparci di bambini, di ragazzi, che quando vengono al mondo non hanno un pensiero sul proprio essere, sulla propria identità. Il neonato niente sa del proprio sesso e della propria sessualità. La creatura umana ci mette un ventennio a completare questa immagine identitaria per cui arriva a una precisa specificazione della propria sessualità in maniera totale, completa e profonda.

Un ventennio è tanto e ci sono delle fasi, delle tappe di particolare sensibilità a questo tema che poi magari rapidamente vi accenno, perché è molto importante avere anche in mente questo.

Quindi prima dobbiamo avere in mente che noi, come adulti, dobbiamo poter rispondere a queste domande e che noi, come adulti cristiani, siamo molto in arretrato su questo perché abbiamo sempre dato un po’ per scontato quello che è il nostro modo di sentire, di pensare e mai abbiamo approfondito, per esempio, il valore della differenza sessuale. È naturale perché il problema non si poneva e forse lo abbiamo un po’ sottovalutato.

Mariolina Ceriotti Migliarese, medico, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta.

Quindi la differenza sessuale è un valore per tutte le cose che sono state dette. Non è una qualità dell’essere, ma una sua specificazione, il che è proprio diverso. Non è una qualità tra le tante come essere alti, bassi, belli, brutti, intelligenti o stupidi, ma una specificazione dell’essere perché noi veniamo al mondo, nella realtà, in due forme sessualmente differenti: al maschile o al femminile.

Questa è una cosa che niente può modificare, nemmeno gli interventi di cambio di sesso possono modificare il fatto che una persona, il suo DNA, le sue cellule, sono tutte caratterizzate o al maschile o al femminile. Anche avendo fatto un cambio di sesso, un maschio non diventerà mai una femmina, come una femmina non diventerà mai un maschio. Questo dobbiamo averlo chiaro.

In che cosa consiste, se vogliamo andare al nocciolo della questione, la differenza sessuale? In che cosa siamo poi differenti nel maschile e femminile? Nella sostanza – lo diceva Aristotele – il maschile è ciò che genera fuori dal proprio corpo, nel corpo del femminile, mentre il femminile è ciò che genera all’interno del proprio corpo.

È questo, perché poi a livello di intelligenza, di competenza, di possibilità di svolgere dei ruoli, dei compiti, delle attività e quello che volete, c’è una grande variabilità tra il maschile e il femminile, ma anche tra maschio e maschio e tra femmina e femmina.

Nella sostanza la differenza sta nel nostro contributo al processo generativo. Noi contribuiamo alla generatività in un modo completamente differente e siamo necessari uno all’altro per generare. Questo è quello che ci dice la realtà.

La costruzione dell’identità

Per assumere poi questa nostra differenza che parte dal corpo sessuato in questi due modi, al maschile e al femminile, ma che deve poi assumere questa differenza che inizialmente è biologica perché diventi una identità, ci vuole un percorso molto lungo. Fino ai 20 anni una persona non ha fino in fondo completato questa identificazione.

È importante sapere che ci sono delle tappe fondamentali di passaggio nell’identificazione e in questo noi dobbiamo diventarne, come adulti, consapevoli. Ci sono due tappe principali – vado molto rapidamente.

L’infanzia e la scoperta della differenza

La prima è il momento della scoperta della differenza. La prima tappa si colloca tra i due e i cinque anni. Quella è l’età della scoperta della differenza secondo il modo di pensare che ha il bambino perché l’adulto, quando parla della sessualità come stiamo facendo noi, non ragiona nella modalità in cui ragiona il bambino. Noi non riusciamo più a pensarla come la pensavamo a 2-3-4-5 anni, perché i pensieri si modificano. Abbiamo un pensiero differente.

Invece dobbiamo tornare a capire come è fatto un bambino e come è fatto il suo pensiero. Il pensiero di un bambino così piccolo è un pensiero concreto, esperienziale, quindi il bambino comprende ciò che sperimenta e ciò che concretamente vede.

Qual è l’esperienza del bambino di 2-3-4 anni? Si accorge che il mondo è diviso in persone che hanno il pene e persone che non lo hanno, quindi la prima cosa che fa un bambino è accorgersi che ci sono due sessi legati all’avere o non avere un genitale visibile.

Siccome il bambino ha un pensiero concreto non concepisce quello che non vede, quindi per il bambino non ci sono due genitali differenti. C’è il genitale maschile e c’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha. Questo è il primo percetto del bambino.

La presenza dei genitali maschili o femminili comporta delle percezioni somatiche completamente diverse. Pensate che un bambino anche piccolissimo sperimenta delle erezioni. L’erezione del pene è un’esperienza che la donna non ha e che comporta una percezione del proprio corpo completamente differente.

La bambina, invece, percepisce la mancanza di qualcosa che non riesce ancora a mentalizzare, a cui non riesce a dare un significato, ma che le dà una percezione di sé completamente differente. Quindi questa è la prima tappa importante. È una tappa che non avviene tra il bambino e se stesso da solo, ma avviene in un bambino che si relaziona con delle figure di riferimento adulte.

Il vissuto in famiglia e le possibili problematiche

Quindi non conta solo la scoperta del proprio sesso, ma conta anche il modo in cui il bambino percepisce come il proprio sesso viene vissuto dall’ambiente che lo circonda, in una configurazione complessa, dentro una storia. Faccio solo degli esempi.

Io sono una bambina.
È bello essere come la mia mamma dal mio punto di vista?
È bello essere femmina come la mia mamma?
Il papà, a cui voglio bene e che ammiro, è contento che io sia una bambina?
Il papà ama le donne?
Il papà ama la mamma che è una donna?
Come tratta la mamma che è una donna? La rispetta?
Eccetera, eccetera.

Quindi vedete che c’è un rispecchiamento in positivo verso la figura del proprio sesso, ma un bisogno che la figura dell’altro sesso confermi il mio valore nella differenza. Quindi già lì incominciano a crearsi una serie di configurazioni che possono essere anche problematiche.

L’età di latenza che, molto pericolosamente, sembra non esistere più

Poi si arriva al secondo snodo che è quello della preadolescenza. L’altra tappa fondamentale in cui si ha uno snodo cruciale dello sviluppo dell’identità sessuale è la preadolescenza. In mezzo, tra questa fase iniziale del bambino che scopre la differenza e l’età della preadolescenza che coincide con la pubertà (quindi con l’esperienza di una maturazione degli organi sessuali che dà una percezione di nuovo molto forte del proprio corpo che si modifica) in mezzo dovrebbe esserci l’età che una volta veniva chiamata «l’età di latenza».

L’età di latenza oggi, molto pericolosamente, sembra non esistere più. È quell’età del primo ciclo della scuola elementare in cui il bambino dovrebbe poter diminuire la propria curiosità verso il sesso per avere una libertà di pensare ed essere curioso di altro.

Quindi l’età in cui si impara che ci sono tante cose belle da imparare, che non è solo la curiosità sessuale, ma si sposta su altri argomenti: la lettura, la scrittura, il mondo della conoscenza.

Non a caso oggi i bambini, bombardati da messaggi che impediscono loro di entrare in latenza, cioè di dimenticare la stimolazione erotica e sessuale eccitatoria, perché sono bombardati da stimoli molto eccitatori, sono bambini che non riescono più neanche ad apprendere.

Chi fa il mio lavoro, neuropsichiatra infantile, sa benissimo che siamo pieni di bambini con deficit di attenzione, con incapacità di apprendere. Si sprecano i disturbi dell’apprendimento. Quindi sono bambini inquieti, non possono entrare in latenza. L’età della latenza è sempre stata fondamentale perché poi permette di preparare la successiva, la preadolescenza, che non è l’adolescenza.

La preadolescenza e la ricerca di nuove appartenenze

La preadolescenza è un’età vulnerabile, preziosissima, in cui si esce dall’appartenenza al mondo dell’infanzia, l’appartenenza alla propria famiglia per cui abbiamo come riferimento la mamma e il papà che ci fanno vedere le cose, ma non abbiamo ancora la competenza del pensiero adolescente che comincia ad essere autoriflessivo.

Quindi è un’età (scuola media) a ponte molto vulnerabile in cui il compito che hanno questi ragazzini è quello di trovare nuove appartenenze di cui la prima fondamentale è l’appartenenza sessuale perché il corpo che si risveglia con la pubertà pone un interrogativo che diventa personale.

Diventa personale cioè «io dove mi colloco?». Mi colloco nel maschile? Mi colloco nel femminile? E questo cosa vuol dire? Chi fa il mio lavoro sa che questa età è un’età di ambiguità sessuale. È un’età fisiologicamente ambigua in cui la tendenza alla bisessualità è molto forte perché il bambino deve uscire dalla onnipotenza della sua percezione anche relativa alla sessualità e decidersi per un sesso e, per farlo, anche qui, si trova davanti a  diverse sfide.

Ora perché è importante sapere questo? Perché oggi il target più attaccato dal punto di vista di questi argomenti è proprio il target dei preadolescenti perché non sono protetti dal pensiero adulto della propria famiglia, perché non fanno più riferimento con quella fiducia di prima alla famiglia d’origine. Cominciano a criticare i genitori.

Chi ha dei figli da scuola media sa che alla scuola media incominciano a criticarti, incominciano a guardare i genitori degli altri, la macchina degli altri, la casa degli altri e si vergognano se gli dai il bacino davanti a scuola. Poi ti vogliono ancora molto bene, ma hanno questa cosa e quindi hanno bisogno di sentirsi sicuri di nuove appartenenze.

L’importanza di una «rete protettiva»

Ora il mondo che noi abbiamo davanti rende difficilissimo questo passaggio all’appartenenza tranquilla e sicura al proprio sesso. Inoltre, siccome la sessualità umana pesca molto in tratti di esperienza personale profonda che si incidono nell’inconscio e che sono anche legati a come noi sperimentiamo l’eccitazione sessuale, la modalità impropria con cui i nostri figli vengono sollecitati alla sessualità oggi – in particolare i maschi, in particolare dalla pornografia dilagante in rete che colpisce soprattutto questo target preadolescente alla ricerca della comprensione della sessualità – diventa un evento traumatico.

Quindi io non voglio allarmare, ma voglio anche un po’ allarmare. Vorrei che noi fossimo molto più consapevoli da un lato della difficoltà che i nostri figli hanno, dall’altro della nostra responsabilità e dall’altro però anche del fatto che noi possiamo fare molto affinché le cose vadano nel modo giusto, nel modo buono.

L’età oggi più vulnerabile è l’età del preadolescente sul quale bisogna proprio fare un lavoro di supporto. Da un lato bisogna ricreare, da parte degli adulti, una rete protettiva di fronte alla vulnerabilità. Una rete protettiva che quindi non permetta esperienze traumatizzanti per quanto possibile e questo è molto importante.

Occorre rivalorizzare l’amicizia

L’altra cosa su cui riflettevamo prima a tavola parlando con Don Alberto è questa. Non so se ci fate caso, ma oggi noi quando vediamo per la strada due persone dello stesso sesso che sembrano un po’ intime, immediatamente pensiamo che siano omosessuali. Lo dico perché succede a me. Mi sono stupita di fare questo pensiero a fronte di persone che probabilmente possono essere anche solo degli amici.

Vedi dei preadolescenti, adolescenti, due ragazzine che si tengono per mano e immediatamente immagini. Questo però deve farci pensare che abbiamo fatto smarrire completamente ai nostri figli dell’età preadolescenziale e adolescenziale la tematica dell’amicizia.

Oggi per i ragazzi è impossibile essere amici nel modo in cui lo eravamo noi perché la configurazione tipica dell’età preadolescente è l’amicizia stretta, l’amicizia del cuore. Ora per un ragazzino o una ragazzina che organizzi un’amicizia come amico o amica del cuore è molto difficile non sentirsela definire come attrazione erotica.

Se provi questi sentimenti forti verso l’amico, verso l’amica, probabilmente sei omosessuale. Anche su questo dobbiamo riflettere, perché diventa anche un argomento di prevenzione. Torniamo a lavorare sul tema dell’amicizia.

Differenza non è disuguaglianza

Quindi la differenza esiste. La differenza ha un valore. La differenza è fondante. La differenza non è disuguaglianza. Molti ci hanno portato fuori pista facendoci leggere la differenza come disuguaglianza, quindi essere donna non è solo essere differente ma essere trattate in modo disuguale. Questo è stato tutto il femminismo che ha avuto una partenza anche sensata. Spesso queste cose partono su temi realmente esistenti e necessari.

La differenza è un valore, la diseguaglianza è un disvalore. Quindi riscoprirla e capire che la differenza nel nostro corpo comporta un modo di stare nel mondo profondamente diverso al quale però dobbiamo imparare a dare progressivamente un nome. Dobbiamo imparare a rispondere a queste ragazzine adolescenti che dicono «io non voglio essere una donna», ma poi magari lo dicono perché «voglio comandare io».

Non hanno argomenti profondi sulla differenza. Vanno per un sentire. Dobbiamo essere noi per primi a trovare di nuovo le ragioni della differenza e a saperla definire come valore perché una donna deve poter dire perché ritiene un valore essere una donna. Un uomo deve poter dire perché ritiene un valore essere un uomo.

Perché soltanto nell’incontro poi noi possiamo diventare capaci di una vera generatività. Non solo generatività di figli, ma io credo anche generatività di idee, di progetti, di pensieri che mettono insieme due nature specificamente molto, molto differenti.

La cultura individualista dei “nuovi diritti”

[Francesco Ognibene]

Quello che vediamo di una che chiamiamo “la cultura dei nuovi diritti”, un dibattito pubblico sul quale sembra che a volte ci troviamo un pochino sguarniti, perché davanti a un diritto che fa perno sulla libertà, sulla scelta, sull’autoderminazione, dici: «vabbè, mani in alto. Mi arrendo».

Si è parlato anche di consumismo dei diritti perché se ne moltiplicano in continuazione, si pretende di legiferare, definirli, blindarli con dibattiti che sfiniscono. Come si affronta questa cultura dei diritti che nasce da questa idea che la differenza sia da ridiscutere da capo?

[Don Alberto Frigerio]

Sono diritti di quarta generazione, così chiamati perché seguono la stagione dei diritti civili, dei diritti politici e dei diritti sociali. Per diritti civili pensiamo alla questione dell’uguaglianza, della libertà. Per diritti politici pensiamo al diritto al voto. I diritti sociali riguardano il lavoro, l’istruzione.

Ora diversi sono i nuovi diritti che, a partire dagli ultimi decenni del novecento, sono stati rivendicati e in diversi modi introdotti negli apparati giuridico-politici dei paesi occidentali. Tra questi nuovi diritti se ne distinguono alcuni. Offro una rapida carrellata:

  • Il cosiddetto diritto alla salute riproduttiva: aborto e contraccezione.
  • Il cosiddetto diritto a nascere sano, ad avere un figlio sano: eugenetica.
  • Il cosiddetto diritto alla buona morte: eutanasia.
  • I diritti sessuali: matrimoni tra persone dello stesso sesso.
  • Procreazione medicalmente assistita.
  • Maternità surrogata.
  • Manipolazione della corporeità.
  • Diritti al potenziamento: incremento delle capacità intellettive, della funzionalità corporea e delle modalità sensoriali.

Questo è un sommario elenco dei cosiddetti nuovi diritti. Ora, a mio avviso, l’aspetto critico dei nuovi diritti, che capiamo bene essere diritti dell’ambito bioetico e delle nuove tecnologie, è la loro curvatura individualista.

I nuovi diritti, infatti, traducono in termini soggettivisti le esperienze umane fondamentali del nascere, dell’amare e del morire. Così facendo i nuovi diritti asserviscono il diritto alle inclinazioni e alle scelte individuali in nome della pretesa volontà di difendere il principio di autodeterminazione del singolo.

Marta Cartabia, giurista.

Come ha rilevato Marta Cartabia, presidente emerita della Corte costituzionale, guardasigilli del governo Draghi e costituzionalista assai nota, «i nuovi diritti rispondono a una precisa concezione culturale: la concezione individualistico-libertaria dei diritti che porta a negare o a rimuovere ogni forma di limitazione ai diritti soggettivi».

Ora tale concezione dei diritti individualistico-libertaria è problematica perché oscura la coscienza maturata a seguito della stagione dei totalitarismi secondo cui il diritto non può essere svuotato di contenuti sostanziali e di riferimenti etici in funzione della volontà individuale o collettiva, come accaduto appunto nel secolo breve.

Al contrario il diritto ha il compito di favorire una giusta socialità, cioè di garantire relazioni sociali giuste, capaci dunque di garantire quelli che sono effettivamente diritti fondamentali della persona capace di custodire il bene comune.

L’incauta equiparazione tra desideri e diritti

Motivo per cui un costituzionalista, Antonio Spadaro, ha contestato l’equiparazione tra desideri e nuovi diritti. Effettivamente tale equiparazione risulta piuttosto incauta e ha chiesto invece di ritornare a una concezione nobile dei diritti fondamentali. Leggo questa citazione di Spadaro un filo lunga ma molto eloquente:

«Ogni semplice desiderio contingente, particolare, soggettivo, è stato considerato equivalente a un diritto. Tali sarebbero, per esempio, anche le liberazioni sessuali, per taluni anche con minorenni; pedofilia, purché consenzienti. E ancora la facoltà di drogarsi, il potere di automutilarsi, di farsi reciprocamente e consensualmente del male, eccetera. In tal modo ogni pulsione iper-soggettiva, ogni tendenza narcisistica aspira a diventare diritto e diritto fondamentale. Tale approccio banalizza i diritti fondamentali in una prospettiva edonistica, consumistica e relativistica, mentre a essi dovrebbero invece corrispondere profondi bisogni se non oggettivi quantomeno intersoggettivi e tendenzialmente stabili nel tempo e universali nello spazio».

Questo è il tema dei nuovi diritti. Che fare dunque a fronte del dilagare o comunque dell’imporsi dei cosiddetti nuovi diritti? Come cristiani, in questa società, siamo chiamati ad evitare due tentazioni: quella di assecondare in maniera acritica le istanze del tempo presente, ma anche quella di arroccarsi su posizioni pure giuste senza però essere in grado di renderne ragione.

Detto propositivamente, come amava dire il Cardinal Newman ai laici dell’800 in Inghilterra, sogno, voglio, desidero un laicato non precipitoso, non reazionario, ma intelligente e capace di rendere ragione di sé.

Ora, a fronte di questi nuovi diritti, che fare? Io credo che si debba agire come cristiani su tutti i registri. Abitiamo questa società che è complessa, quindi si potrà provare ad agire a livello prepolitico, culturale, come questa sera; a livello educativo, a livello politico per chi si occupa della cosa pubblica.

Per la libertà educativa, contro il pensiero unico

E richiamo un elemento in particolare che quantomeno bisogna cercare di garantire e di tutelare: la libertà di espressione e la libertà di educazione che in dibattiti piuttosto recenti abbiamo visto essere talora messa a repentaglio.

Quindi ancora una volta in modo non scomposto, non reattivo, pacato, fermo, intelligente, richiamare questi dati, tanto più nella società plurale abitata da soggetti portatori di mondovisioni differenti. E da questo punto di vista invito a leggere un documento editato dalla Congregazione per l’educazione cattolica nel 2019 dal titolo «Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione».

Il passo a cui mi riferisco tratta in special modo delle scuole cattoliche dove appunto si chiede allo Stato, per essere realmente democratico, di non ridurre la proposta educativa a pensiero unico, tanto più in un contesto e in una materia così dibattuta su tutti i registri: a livello biologico, psicologico, filosofico, quindi tutti i registri dell’elaborazione teoretica.

Al contrario le scuole, ciascuna mamma, ciascun papà, ciascun contesto educativo (l’oratorio, l’associazione, il movimento) è chiamato davvero a esprimere una visione integrale dell’io in cui Corpore et anima unus, in cui la dimensione biologica, psichica e spirituale siano affermate nella loro unità per il bene della persona.

Come educare

[Francesco Ognibene]

Vorrei chiamare in causa il cardinale Scola sul tema dell’educazione. In un quadro culturale caratterizzato anche da questa indefinitezza, incertezza e, in particolare, su ciò che ci caratterizza come uomini, donne, come ciò che ci costituisce. Come è possibile educare i ragazzi che – come ci diceva Mariolina Ceriotti Migliarese prima – danno per scontato ormai che sia tutto uguale, che vada tutto bene, che ogni scelta sia legittima e – io direi anche – insindacabile?

[Angelo Scola]

Io credo che per educare bisogna collegare ogni aspetto, persino ogni frammento della realtà al tutto, ma questo collegamento al tutto non è solo il frutto delle competenze pur necessarie, perché la stragrande maggioranza dei papà e delle mamme non potrebbero parlare come abbiamo parlato noi questa sera di questa problematica pur così decisiva per i loro figli.

Allora rapportare ogni dimensione al tutto significa inserire in ogni dimensione la questione delle questioni: «io chi sono?». Come questi aspetti che vi toccano mi interpellano sulla domanda di fondo: «per chi io vivo?».

Educare significa innestare nel cuore dei ragazzi questa domanda e noi dobbiamo farlo come cristiani mostrando come in tutti questi aspetti anche problematici dell’esistenza la questione del “perché io vivo” non può non essere ricondotta a Gesù Cristo come il Dio vivente.

Perché “Dio” lo dicono in tanti, ma noi diciamo “il Dio vivente” che ha assunto la nostra natura, tranne che il peccato, e ha dato la sua vita, inchiodando tutti i nostri peccati alla Croce, per la nostra salvezza.

Angelo Scola, cardinale, arcivescovo cattolico e teologo.

Quell’idea che io sentivo dire già da ragazzo, quindi 70 anni fa, che non si può parlare subito di Gesù Cristo come il punto di riferimento attraverso il quale – con le debite articolazioni di pensiero, di giudizio, a partire dall’esperienza – tentare la risposta a queste domande perché si pensa che se uno parla di Cristo esclude quelli che non credono. Non c’è niente di più sbagliato.

Il problema è come uno lo vive e come uno ne parla. Ecco perché personalmente preferisco parlare di Mistero nuziale ricomprendendo la differenza, l’apertura all’altro, l’amore e la fecondità. Preferisco esplicitare. Con i ragazzi ho sempre cercato di fare questo e capiscono molto di più di quanto non si pensi.

Parlare di meno – evidentemente parlarne a tempo debito in modo opportuno, ma non ossessivamente – del proibito e parlare di più del positivo, di come la mia esperienza di Fede, che è un’esperienza umana, illumina tutti questi aspetti della vita, anche la dimensione sessuale la illumina fino in fondo.

A tal punto che Paolo non esita a instaurare un intreccio tra il Cristo sposo, la Chiesa sposa e l’uomo e la donna che si sposano nella Fede. Quindi io penso che noi dobbiamo fare molto su questo senza rinunciare a tutte le competenze, ma iscrivendole con chiarezza dentro questo orizzonte globale di senso.

Un bambino, un adolescente per inoltrarsi nella vita ha bisogno che sappia dove sta andando, dietro chi sta andando, con chi sta andando e quando il rapporto con il papà e la mamma diventa più complesso ed articolato deve avere un appoggio di sicurezza.

Per questo il fenomeno della comunità associativa, degli oratori, dei movimenti, di tutte le realtà che assicurano un’appartenenza è decisivo per capire questo problema che va spiegato anche – ovviamente, come ha fatto la professoressa – nella sua articolata specificità.

Se c’è un ambito in cui noi dobbiamo dare testimonianza è proprio l’ambito della differenza sessuale, ma io sono convinto che il motivo per cui molti giovani convivono anziché sposarsi, non vedendo più la differenza di qualità che c’è tra le due cose, è perché non vivono nella vita quotidiana un’appartenenza segnata dal riferimento a Gesù Cristo e alla vita della Chiesa.

Questo non esclude nessuno. Ti dà la possibilità di un abbraccio largo. È per questo che io, quando ho cominciato ad affrontare questa problematiche, sono ritornato ai temi decisivi, ai misteri decisivi della vita cristiana: Trinità, Cristo, Chiesa. E ho parlato di differenza che apre al dono e che è per sua natura feconda.

Io penso che l’educazione del ragazzo domandi questo e penso che questo ha nel cuore di ogni genitore, indipendentemente dal fatto che creda o non creda, una eco della testimonianza cristiana, una domanda di verità – che la testimonianza assicura – molto profonda. Quindi io andrei con più decisione in questa direzione.

Mentre mi pare che stia succedendo un po’ il contrario. Nella mia trentennale esperienza di vescovo, in varie situazioni ho visto un po’ il contrario perché – non me ne abbia la dottoressa, ho stimato molto il suo intervento – anziché dire queste cose si chiama lo psicologo, si chiama questo, si chiama quello, e si parla solo dello specifico.

Lo specifico è una dimensione decisiva e costitutiva di cui si deve parlare, ma bisogna avere il coraggio di testimoniare il senso pieno mostrando il nesso tra l’integralità della visione cristiana e il problema, offrendo ai giovani una possibilità di compagnia e di cammino comune.

[Francesco Ognibene]

Mariolina vorrei riprendere al volo questa provocazione del cardinale sull’aspetto più educativo. È vero che – è quello che si sente e che ho letto anche con una certa apprensione e meraviglia anche – c’è un fenomeno di crescita dei problemi di identità sessuale nei ragazzi, spinto probabilmente anche da questa pressione culturale? E come lo si affronta, tu che cosa vedi?

[Dott.ssa Mariolina Ceriotti Migliarese]

Allora prima di tutto io sono molto d’accordo con quello che ha detto il cardinale, quindi non mi risento minimamente. Poi io ci tengo a essere neuropsichiatra infantile e non psicologa, quindi già questo mi dà… [risata]

Sono d’accordo nel senso che è evidente che i nostri figli guardano a noi in particolare proprio come guide verso la vita, quindi educare sostanzialmente alla fine è mostrare una direzione nel vivere e dare un senso al vivere.

Infelicità, disorientamento e vuoto di speranza

Quindi è chiaro che i figli a qualsiasi età guardano gli adulti per vedere se gli adulti vivono con senso. Una delle problematiche gravi di oggi è proprio la caduta di speranza che si respirano, quindi questo mondo che va verso l’indifferenziazione, che va verso il “tutto è uguale”, verso il “tutto è lecito”, vero il “tutto il piacere che poi trarre dalla vita trailo”, ma poi è sostanzialmente un mondo privo di speranza.

Quindi quello che noi verifichiamo non è che questo tipo di cultura sta portando maggior felicità nelle persone. Sta portando maggior disorientamento, maggiore infelicità in qualche modo perché è un mondo nel quale l’idea è di prendere mentre l’esperienza di tutti noi è che ciò che ci fa star bene è ciò che noi dall’interno diamo verso il fuori, non ciò che prendiamo.

Ciò che prendiamo ci nutre, ma ci nutre perché noi possiamo farne ritorno al mondo. Quello che ci fa star bene è la nostra creatività intesa come capacità di dare al mondo cose nostre e il mondo non porta lì.

Quindi condivido assolutamente che è importante una testimonianza adulta di persone convinte che la vita abbia un valore, convinte – se hanno Fede – della propria Fede che non è astratta, ma permette di vivere la nostra concreta vita in un modo più ricco, più bello, più pieno di senso.

I ragazzi oggi sono in questo mondo confuso. È vero che c’è un aumento di queste problematiche, anche se credo che poi la vera problematica identitaria – intesa nel senso della vera difficoltà ad adattarsi alla propria sessualità, o dell’attrazione verso il proprio sesso invece che verso l’altro – siano in parte anche fenomeni sostenuti proprio dall’ambiente culturale.

Per cui credo che una delle competenze adulte quando abbiamo a che fare con i preadolescenti e gli adolescenti sia proprio l’accompagnamento paziente, non la fretta di dare noi delle risposte al posto loro, ma la possibilità di testimoniare le cose senza correre dietro ai loro passaggi.

Testimonianza, amore, senso della vita, domanda aperta e ascolto

Gli adolescenti sono un po’ come un mare in tempesta alla ricerca del loro identità con le onde che vanno su e giù e di tutto hanno bisogno fuorché di un adulto che va su e giù con loro nella nave. Hanno bisogno di adulti capaci di tenere la posizione per quanto possibile con un occhio fiducioso nella possibilità buona che i ragazzi, un po’ alla volta, ce la facciano a crescere bene.

Io credo che il metodo della domanda sia particolarmente utile. Oggi più che dare risposte dobbiamo tenere aperte e sollecitare le domande perché loro ci pongono i loro dubbi. Io penso che se il ragazzino o la ragazzina vengono e ti dicono «io penso di essere innamorato di un compagno dello stesso sesso» allora forse quello che è utile, almeno per i più piccoli, è proprio tenere la domanda aperta.

Cioè di aiutare a dire: “aspetta”, “domandati”, “vediamo di capire perché ti sembra così”, “che cosa pensi di questo”. Cioè favorire un loro pensare rispetto alle cose perché molte volte non si tratta di un vero disorientamento dell’identità sessuale, ma proprio di quel disorientamento affettivo alla ricerca della propria profonda identità che accompagna la vita nella crescita.

Quindi la capacità di stare un po’ in posizione, di mantenere la posizione, di dimostrare fiducia, di non precipitare mai le cose. Ecco è molto importante per i preadolescenti e gli adolescenti sapendo che poi, alla fine del percorso, la parola ultima sarà la loro quando diventeranno adulti, ma accompagnandoli con questa pazienza dell’aiutare ad aprire delle domande, ma senza l’ambiguità anche della propria posizione.

Per noi, come credenti, ma come persone che hanno un certo pensiero, la differenza è importante. Testimoniamo di una femminilità e di una mascolinità che sono positive. Cerchiamo di testimoniare di una buona relazione tra il femminile e il maschile con tutti i limiti.

Perché se per educare i nostri figli dovessimo aspettare di essere capaci di avere una perfetta femminilità o mascolinità, una perfetta relazione di coppia, una capacità di mostrare come siamo una famiglia generativa, allora ci mettiamo una pietra sopra perché credo che qui nessuno possa ergersi a modello particolare per gli altri.

Però quello che per i nostri figli conta è la nostra passione per loro, il fatto di sentire che qualcuno davvero tiene a loro perché chi ascolta i ragazzi facendo il lavoro che faccio io o magari anche gli insegnanti, gli psicologi, eccetera, si rende conto di come questi ragazzi non trovano ascolto.

Cioè loro trovano molto rumore di parole, ma non ascolto su di sé, proprio sulla domanda che si pongono in modo personale: «chi sono io?». Cosa vuol dire per me diventare un uomo, diventare una donna, immaginare un futuro, incontrare la sessualità? Magari sono incappato in una modalità della sessualità che mi ha spaventato. Dicevo prima la pornografia che introduce degli scenari sempre abnormi rispetto alla sessualità, quindi una sessualità fatta di cose esagerate, che spaventa, che scoraggia.

Quindi “chi sono io”, invece, così come sono con la mia fragilità, con le mie fatiche. In che modo posso incontrare una persona dell’altro sesso? In che modo posso fare amicizia col mio stesso sesso per rinforzare la mia mascolinità, la mia femminilità? Queste sono le domande che loro ci fanno e ce le fanno in modo personale.

Questo da un certo punto di vista è anche ciò che ci può incoraggiare, nel senso che noi non abbiamo a che fare con gli adolescenti, ma con Giovanni, Maria, Francesco, Luigi. Abbiamo a che fare con una persona alla volta che si interroga su di sé e rispetto a questo ha bisogno, e continuerà sempre ad aver bisogno, di una persona adulta che ha un’esperienza, in ogni caso, superiore alla sua perché anche l’adulto meno formato ha comunque un’esperienza superiore a quella di qualsiasi ragazzo di venti o trent’anni di meno.

Una persona che lo ascolta con interesse lo accompagna dentro questo percorso col proprio ascolto, senza avere paura perché noi tante volte nell’ascolto coi figli, coi ragazzi, ci domandiamo cosa dobbiamo dire: «ma cosa dico?».

Mentre credo che la cosa più importante è che siano loro a dire, che parlino ad alta voce di sé perché soltanto nel ragionare ad alta voce, ascoltati da una mente attenta, appassionata di te, interessata e curiosa davvero di te, che si forma poi il pensiero su se stessi. Però è proprio un rispecchiamento.

La persona umana non cresce se non è rispecchiata da uno sguardo attento, affettivo, benevolo, incoraggiante, ma anche da uno sguardo che guarda da qualche parte, che indica una strada e una direzione quindi mi trovo in accordo assolutamente anche con il cardinale Scola.

[Francesco Ognibene]

Don Alberto l’ideologia del genere esiste o non esiste?

[Don Alberto Frigerio]

Ma basta leggere un’intervista di Judith Butler, che è una delle più grandi teoriche del gender, in cui dice chiaramente che il pensiero gender si radica sull’antropologia statunitense e sul post-strutturalismo francese di scuola foucaultiana. Quindi esiste.

[Angelo Scola]

Certamente esiste perché, anche dalle cose molto interessanti che sono emerse questa sera dai miei due correlatori, è evidente che un conto è riconoscere che la crescita sessuale implica un intreccio di natura e cultura e io arrivo anche a dire che certe riflessioni sul gender ci hanno aiutato a capire questa cosa che è molto importante e di cui noi dobbiamo tener conto.

Un conto però è sconvolgere la natura intima di questo intreccio abbandonando la natura. Un conto è il biologismo come la pretesa di dedurre automaticamente per tutti dalla sessualità biologica, tutto il senso, il valore, il peso e la direzione che la crescita sessuale deve assumere.

Un conto però è rinunciare a questo dato. Che un ragazzo a 14 anni possa andare in comune, come avviene in certi paesi anche d’Europa, e dire che io mi sento donna perciò da ora in avanti non mi chiamo più Giovanni ma Giovanna, a me sembra di una evidenza palmare espressione di una visione ideologica della realtà.

Quindi riconosco che tutta questa riflessione, come anche la riflessione femminista, per altri aspetti ha contribuito e deve contribuire visto che c’è anche l’aspetto di rivelazione del imago Dei in cui la sessualità ci indica, attraverso la differenza sessuale, il dono di sé all’altro e la fecondità.

Un conto è abolire in toto il peso della natura perché questo è secondo me irrealistico. Per questo c’è bisogno di testimonianza e questa la devono dare soprattutto – come diceva molto bene la professoressa – senza timori i genitori. Prima di tutto i figli in un ascolto paziente, senza reazioni scomposte.

In qualunque caso senza far mancare la percezione chiara di essere amati ai nostri ragazzi, senza far mancare che noi desideriamo che loro si compiano nel modo migliore possibile. Dobbiamo farlo come cristiani ma anche gli uomini di buona volontà, chiunque abbia percepito che uno non cammina se non ha un senso per vivere.

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