La narrazione dominante sui femminicidi è falsa (dati alla mano)

4
2480

Perché parlare di questa tematica? Perché c’è una narrazione dominante basata sul “noi contro loro”, su menzogne, generalizzazioni, ignoranza di dati e fatti, in un approccio conflittuale e clima d’odio che discrimina e non coglie il punto della questione.

Come ogni processo di barbarica polarizzazione ideologica, il metodo è quello di individuare il nemico, disumanizzarlo e chiamare a raccolta le truppe, rispondendo ai nostri istinti sociali più primitivi.

Assomiglia molto a ciò che è spesso accaduto con l’immigrazione. C’era la notizia di un reato grave e veniva utilizzata dai mass media per creare l’immagine dell’immigrato mostro, assassino, violentatore, spaventando la gente con la rappresentazione di un’emergenza che non esisteva.

Vediamo quali sono i tanti miti da sfatare, per poi addentrarci in un discorso più profondo sul come siamo caduti nelle logiche di potere e sul perché dovremmo riappropriarci di quelle dell’amore.

Dati sugli omicidi divisi per sesso

Secondo l’ultimo rapporto Istat, in Italia nel 2021 ci sono stati 303 omicidi, di cui:

  • 184 uomini (60,73%)
  • 119 donne (39,27%)

Possiamo dedurre che nascere uomo anziché donna significa incorrere in un significativo maggior rischio di essere vittima di un omicidio.

La narrazione dominante, però, ignora questa disparità favorevole alle donne e si concentra solo sugli omicidi in cui l’autore è uomo e la vittima è donna, sottolineando che nella maggior parte dei casi l’autore è appunto un uomo, ma nasconde che nella minor parte dei casi la vittima è una donna.

Omicidi in ambito familiare o relazionale

Dei 303 omicidi totali, 139 sono avvenuti nell’ambito di una relazione di coppia o in famiglia (45,87%) di cui:

  • 100 donne (71,94%)
  • 39 uomini (28,06%)

L’uccisione di donne in questi ambiti viene considerata femminicidio a prescindere dal movente e dalle circostanze. Questi dati infatti includono un po’ di tutto, anche donne che uccidono donne e uomini che uccidono uomini, uccisioni per questioni ereditarie o gravi malattie, ma vedremo in seguito come questi dati vengono strumentalizzati dalla propaganda femminista dominante.

Quasi il 30% di questi omicidi ha come vittima un uomo e questo non è un dato irrilevante. Evidenziarlo, magari dando risalto mediatico – almeno per una volta – a quegli omicidi di uomini per mano di donne, renderebbe più difficile parlare di «femminicidi» senza parlare anche di «maschicidi».

I maschi sono sempre la maggioranza tra gli autori, ma non viene minimamente considerata la differenza di forza fisica tra uomo e donna, sia per come può determinare un evento nel concreto, sia per come simbolicamente influisce a livello psichico sulle percezioni e sulle propensioni. Ci sarà un motivo se questa realtà è tale sempre e ovunque nel mondo, a prescindere da culture, tradizioni e ideologie fortemente differenti?

Sembra infatti parecchio ovvio che quando un uomo vuole far male ad una donna ha molte più possibilità e più fiducia di riuscita che al contrario, per ragioni proprio fisiche, pertanto anche una maggior capacità di difesa da un tentativo di omicidio che è più probabile resti solo «tentato» o che non venga nemmeno tentato per timore della reazione. Piuttosto sarebbe stato anomalo se, nonostante ciò, il riscontro dei dati fosse stato alla pari.

I vari casi di cronaca in cui è la donna a compiere il gesto, spesso pubblicati solo sui meno conosciuti quotidiani locali, in genere rappresentano violenze e tentativi di omicidio dall’esito non fatale, ma che è facile immaginare lo sarebbero stati a sessi invertiti, per ragioni di forza fisica (vedremo in dettaglio, in seguito, alcuni casi recenti). Ecco perché la violenza non ha genere.

Inoltre se ancora volessimo pensare che la causa della sproporzione sia basata sulla solita storia del patriarcato, l’avremmo rilevata anche sul piano delle violenze psicologiche dove, come molti recenti studi dimostrano, la realtà è ben diversa e quasi opposta (lo vedremo più avanti).

Lo strano significato di «femminicidio»

Dato che nessuno uccide qualcuna «perché donna», hanno tirato fuori l’espressione «in quanto donna». Basta però che l’autore appartenga all’ambito della famiglia (marito, ex-marito, figlio/a, madre/padre, fratello o sorella, zio/a, cugino/a, ecc…) o di una relazione (fidanzato o ex-fidanzato, compagno o ex-compagno, scopamico o ex-scopamico, ecc…) che automaticamente è considerato un omicidio “in quanto donna” e perciò un femminicidio.

Intervento del prof. Tonello

Fabrizio Tonello, Docente di Scienza politica, Università di Padova.

Fabrizio Tonello, docente di scienza politica presso l’Università di Padova, nel 2013 ha pubblicato un articolo dal titolo «Femminicidio: i numeri sono tutti sbagliati». All’interno viene dimostrato che quotidiani come Repubblica manipolano i dati per imporre narrazioni fantasiose e allarmistiche lontane dalla realtà, facendo notare che su 60 milioni di abitanti ci sarà sempre qualche mela marcia che risalterà alle cronache, ma fare allarmismo su un fenomeno molto raro e in calo è inutile e dannoso per le donne stesse che – guardando i titoli – non possono che provare ansia all’idea errata che da un partner devono aspettarsi un’aggressione più che una carezza.

Il professore inoltre spiega che «femminicidio» è un’espressione impropria perché:

«si crea una nuova parola che crea una nuova realtà: le donne uccise “in quanto donne”, come gli ebrei, sterminati “in quanto ebrei”. Ma il paragone non regge: gli ebrei Samuel, Israel, Ruth o Esther venivano mandati dai nazisti nelle camere a gas per il solo fatto di essere di religione ebraica, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Le donne uccise da ex partner non vengono uccise “in quanto esseri umani di sesso femminile” bensì esattamente per la ragione opposta: per essere quella donna che ha rifiutato quell’uomo.»

Il prof. Tonello, trovando similitudini con il fenomeno del razzismo, fa notare anche che:

«Nel 2006-2007 sembrava che dietro ogni omicidio di una donna ci fosse un extracomunitario, nel 2013 sembra che il colpevole debba essere un marito o un ex: prima di creare task force ministeriali o addirittura nuove leggi guardiamo ai numeri veri del fenomeno.»

Da notare che questo articolo è stato pubblicato nel 2013, quando esisteva ancora una certa libertà di pensiero in merito. Oggi un intervento del genere è quasi impensabile perché si rischierebbe di dover affrontare la macchina del fango mediatica, accuse di misoginia e perdita del proprio ruolo di docente universitario per intervento del governo, che sia di sinistra o di destra.

Il “fantastico” mondo senza patriarcato

Come si giustificano gli ideologi del nostro tempo nell’uso dell’espressione “in quanto donna” da cui deriva la parola “femminicidio”? Dicono che il fatto di trovarsi nel contesto familiare e relazionale sarebbe un’imposizione culturale della società patriarcale che ti posiziona lì, appunto, “in quanto donna”.

Invece uno dei più autorevoli intellettuali italiani, Luciano Canfora, interrogato dopo un femminicidio ha detto che questa non è l’era del patriarcato e che parlare di patriarcato oggi non è corretto.

Sembra comunque che in un mondo senza questo fantomatico patriarcato le donne diventeranno asessuate, chiuse all’esperienza dell’innamoramento, disconosceranno i propri genitori e parenti, vivranno sole con il gatto e penseranno solo a lavorare (la direzione che si sta prendendo, in effetti, assomiglia a questa), per la gioia del capitalismo.

Eppure è dai tempi di Adamo ed Eva che l’essere umano si riproduce e per far questo ha bisogno dell’unione di un uomo e una donna. In quello stesso momento si crea una relazione che, se stabile (come si spera e come è importante per la prole), si chiama appunto famiglia. Se non è stabile e non genera prole, rientra comunque nell’ambito della “relazione”.

Inoltre – e qui la grande contraddizione è ancora più evidente – il solo fatto di essere nati richiede necessariamente l’esistenza di un padre e una madre che normalmente (come si spera) si prendono cura di te, ritrovandoti così nel contesto familiare. Non è il patriarcato (quanto è imbarazzante doverlo anche dire!), è la natura.

Perché gli omicidi di donne in questi contesti così naturali, fondamentali e necessari avverrebbero «in quanto donne»?

Il divieto di dire «maschicidio»

Pur volendo accettare questo strano (e assurdo) significato di «femminicidio», non dovremmo usare allora anche il termine «maschicidio» per gli uomini uccisi in ambito familiare o di una relazione, quindi per quel 30% di omicidi che avvengono nelle relazioni o in famiglia a danno dei maschi?

Anche loro si troverebbero posizionati in quell’ambito a causa delle «sovrastrutture culturali» e delle donne stesse che bussavano alla loro porta chiedendo la garanzia del matrimonio e i figli (come normalmente accade) o anche solo indossando un abito succinto per attirare la loro attenzione sfruttando quello che viene definito «potere sessuale».

Il termine «maschicidio» è severamente vietato, ma la logica chiede giustizia. Chi argomenta il suo divieto sostiene che, quando è la donna a commettere violenza o ad uccidere, c’è sempre dietro qualche motivo. «Chissà cosa viveva per arrivare a fare un gesto simile», si sente spesso dire.

Warren Farrell, educatore statunitense, ex-femminista, autore di 7 libri su tematiche di genere.

È la teoria della “Cortina di Pizzo” di cui ha parlato in una sua ricerca Warren Farrel, educatore statunitense autore di sette libri su tematiche di genere: quando a delinquere è un uomo, l’attenzione maggiore si concentra sull’efferatezza del gesto. Quando a farlo è una donna, l’attenzione si concentra sulle cause che l’avrebbero spinta al gesto.

Quando una donna uccide un uomo, la strategia basilare adottata sempre è quella di dire “mi maltrattava”, accusando il morto che non può più difendersi dalle accuse, trasformandolo in carnefice mentre l’omicida diventa la vittima. Una strategia molto efficace solo se adottata dalla donna. I giornali, infatti, in questi casi riportano spesso titoli che recitano: “Lui la maltrattava, lei lo uccide”, anticipando la giustificazione al gesto stesso.

Quindi solo se l’azione violenta la compie un uomo, è subito bollato come «maschio tossico» e per lui ci si augura l’ergastolo. Perché nel suo caso nessuno si chiede mai cosa l’ha spinto al gesto? D’altra parte nessuno vorrebbe mai arrivare a perdere tutto e passare il resto della propria vita in carcere. Se arrivi a quel punto che cosa si può vivere se non un forte malessere e disperazione?

La ragione di questo squilibrio nei giudizi (e nell’uso dei termini) è nella scarsa conoscenza della violenza da donna a uomo che, come affermano diversi studi recenti, supera anche quella da uomo a donna. Una violenza che avviene anche perché è socialmente negata o tollerata. La vedremo più in dettaglio dopo il prossimo paragrafo.

Come vengono contati i femminicidi?

La Repubblica da anni conta i femminicidi in Italia con un apposito “Osservatorio”. Nei primi 4 mesi del 2023, ad esempio, ne ha contati 28. I casi di ex violenti, o di relazioni finite, sono 5 su 28. Il resto sono casi di follia, problemi di alcolismo, omicidi ancora inspiegabili. Almeno 9 di questi casi, 1 su 3, sono evidentemente non dei femminicidi:

  • una figlia 17enne che uccide la madre.
  • una madre 50enne che uccide la figlia di 13 per non lasciarla andare a vivere con il padre, divorziato.
  • 3 omicidi pietatis causa di oltraottantenni (in 2 casi l’omicida si è tolto la vita).
  • il doppio suicidio di due anziani 85enni, dei quali lei avrebbe ideato e richiesto il gesto.
  • il doppio assassinio di un professore aquilano che ha sterminato la famiglia e si è sparato.

In quest’ultimo caso, la madre e la figlia sarebbero femminicidi, ma il figlio disabile, ucciso nello stesso modo, dalla stessa persona e per lo stesso motivo, lui no. Ed è lo stesso caso di Benno, che uccise i due genitori, per lo stesso movente e nello stesso luogo, ma solo quello della madre sarebbe un femminicidio.

Anche l’Istat agisce incredibilmente in modo così scriteriato, ed ecco come vengono fuori i 100 femminicidi all’anno.

C’è solo un sito web che si limita a considerare femminicidi solo quelli tali “in senso tecnico”, ed è femminicidioitalia.info. Se andiamo ad osservare il 2023, vediamo infatti che il totale è di 42 femminicidi.

Che i dati sui femminicidi vengono comunemente gonfiati è stato spiegato molto bene anche dal Prefetto di Padova. Ascoltalo nel video sottostante.

Se analizziamo ogni singolo caso, inoltre, notiamo che in 18 casi su 42 (il 43%) l’autore è di origine straniera (nonostante la loro incidenza nella popolazione italiana sia del 8,6%). Dato che questo fenomeno viene imputato alla nostra cultura, sarebbe il caso di non conteggiare omicidi commessi da persone che provengono da un altro contesto socio-culturale.

Togliendo loro, quindi, il numero di “femminicidi” scende a 24. Già un numero più congruo se si vuole mantenere un minimo di decenza narrativa.

Non solo non esiste alcuna emergenza, ma il fenomeno è molto più piccolo di quanto si possa immaginare (come vedremo ancora più dettagliatamente in seguito). Ed è un peccato, perché questo gioco mediatico toglie attenzione e spazio alle vere emergenze che evidentemente il Potere non ha alcun interesse a divulgare (le vedremo in seguito).

La violenza da donna a uomo

Secondo recenti studi (Straus, 2011; Cortoni et al., 2017; Denson et al., 2018Dim, 2020; Douglass et al., 2020) gli uomini subiscono violenza più spesso delle donne. In particolare emerge che queste ultime riportano solitamente lesioni fisiche più severe, ma ciò non implica che i danni subiti dagli uomini siano meno gravi o importanti.

L’aggressione sugli uomini, rispetto a quella fisica o sessuale, è prevalentemente di tipo psicologico, con conseguenze a lungo termine devastanti per il benessere della persona (Randle & Graham, 2011).

Anche le donne (come gli uomini) talvolta sono gelose e possessive e reagiscono in maniera violenta se scoprono che il proprio partner va con un’altra. Se è la donna ad andare con un altro, però, la reazione dell’uomo è considerata una violazione maschilista della “libertà di scelta”. A parti invertite la cosa è tollerata o negata e certo fa poco notizia. Eppure avviene ugualmente perché il bisogno di fedeltà riguarda – come è risaputo – entrambi i sessi.

La minore forza fisica della donna, e perciò la maggior capacità di difendersi da parte dell’uomo, spinge la prima a trovare altri metodi che potrebbero sfuggire alle indagini e alle statistiche, come in questo recente caso del 2 luglio 2023

È chiaro che la donna ha meno possibilità di riuscita nel suo intento omicida per ragioni di forza fisica, come si evince anche da questo recente caso del 22 luglio 2023, ennesimo esempio che testimonia perché la violenza non ha genere.

Pasquale Giuseppe Macrì, docente dell’Università di Arezzo, ha realizzato il primo studio sul tema in Italia nel 2012 accendono i riflettori su quello che ha definito un fenomeno «sommerso e sottovalutato». Secondo lo studio sono circa 3,8 milioni gli uomini in Italia che hanno subito abusi per mano femminile (il 18,7% della popolazione maschile).

Ciò che emerge da questo studio è che gli episodi non vengono denunciati per la paura di non essere creduti. L’essere vittima di violenza non si concilia con l’immagine di “uomo forte” che le culture di tutto il mondo e di tutti i tempi ereditano dal dato di natura.

Molti di questi uomini quindi sono convinti che ci si aspetti da loro che siano in grado di difendersi da soli: questa è una delle ragioni per cui pochi di loro chiedono aiuto e/o si rivolgono ai centri antiviolenza.

Gaia Mignone, sociologa con specializzazione in criminologia, da tempo opera nel centro anti-violenza Ankyra. Ha raccontato che gli uomini che si rivolgono a loro sono vittime di violenza domestica e stalking e che la difficoltà maggiore che affrontano è la vergogna nell’ammettere di subire abusi da parte di una donna perché per un uomo è squalificante. L’atto di sedersi in Questura di fronte a un carabiniere o a un poliziotto è complesso specialmente quando si parla di violenza sessuale.

Ecco un esempio recente di uomo accoltellato dalla fidanzata, ma che ha preferito dichiarare che il carnefice fosse un estraneo. Notizia del 24 agosto 2023.

False accuse e minacce

Si tende sempre a pensare che l’uomo sia il carnefice e la donna la vittima e ciò è alimentato anche dalla continua propaganda mediatica unilaterale che dà vita, inoltre, al fenomeno delle «false accuse», quando le donne sfruttano la percezione di essere più credibili per ottenere benefici, risarcimenti ingiusti o per far del male a qualcuno.

Questa notizia è un esempio scelto a caso, ma il fenomeno è vastissimo, tanto da essere stato segnalato da diversi professionisti (sia uomini che donne) che operano nell’ambito della giustizia. Ecco un documento pubblicato dal Senato della Repubblica per fare luce su questo fenomeno.

I dati e la percezione delle violenze subite dagli uomini sono, in somma sintesi, inevitabilmente sottostimati.

Anche l’uomo, come la donna, tende a portare avanti la relazione anche se vittima di violenza. I timori riguardano soprattutto la separazione, in quanto con essa temono di perdere tutto, inclusi i figli e le proprietà. Tra le violenze psicologiche denunciate dall’89% degli uomini-padri, infatti, al primo posto figurano le azioni o la minaccia di azioni finalizzate alla sottrazione dei figli in seguito alla separazione.

Gli studi in questo settore sono ancora in fase sperimentale, ma quello che si evince è che il profilo della donna maltrattante è identico a quello della più conosciuta figura violenta maschile.

Perché si uccide (il mito dell’assassino geloso)

In un articolo pubblicato su La Repubblica dal titolo “Perché gli uomini uccidono le donne”, firmato dalla saggista femminista Michela Marzano, troviamo scritto che:

«quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l’uccidono.»

Dovremmo ringraziare l’autrice per quel «talvolta». Ci mancava poco dicesse che la uccidono sempre. Però pare dobbiamo accettare l’idea che quella di minacciare e picchiare è un’azione che un uomo commette abitualmente quando la donna lo lascia per andare con un altro. Non pare che la saggista in questione abbia voluto prevedere eccezioni.

Ora immaginate se venisse pubblicato un articolo che si intitola «Perché gli immigrati uccidono gli italiani» con all’interno scritto:

«quando un immigrato incontra un italiano lo ferma, lo deruba, lo picchia, talvolta lo uccide.»

La narrazione dominante femminista è di stampo razzista.

Per fortuna il mondo, però, non è dominato solo da intellettuali ideologizzati e poco onesti, ma esiste l’Istat con i suoi dati oggettivi. Grazie alla stessa rilevazione del 2021 apprendiamo non solo il numero molto esiguo, ma anche i moventi degli omicidi (che nell’88,4% dei casi è stato possibile stabilire) tra i quali emergono:

  • lite, futili motivi, rancori personali (45,9% degli omicidi), valore rilevante per le vittime di entrambi i sessi (47,3% per gli uomini e 43,7% per le donne)
  • motivi passionali (11,6% degli omicidi), con una significativa distinzione per sesso (20,2% per le donne e 6% per gli uomini)
  • motivi economici, inclusi gli omicidi a scopo di rapina (6,9% del totale) con un’incidenza maggiore tra le vittime maschili rispetto a quelle femminili (9,2% e 3,4%)

Non solo gli uomini che uccidono le donne sono una rarità nella rarità della rarità (come vedremo in dettaglio nei prossimi paragrafi), ma è anche molto minoritario tra questi il numero di coloro che uccidono perché gelosi.

Il mito dell’ultimo appuntamento

Eppure, nonostante ciò, si dice alle donne (a tutte le donne) di non andare all’ultimo appuntamento dopo essersi lasciati, negando all’uomo un trattamento umano. È come se non uscissimo più di casa perché ci potrebbe cadere un vaso in testa da un balcone. È come non entrare più in un supermercato perché ci potrebbe essere una rapina e potremmo restare uccisi da un proiettile vagante. Si può andare avanti all’infinito.

Ecco alcuni suggerimenti simili dati a tutte le donne attraverso i maggiori quotidiani nazionali.

Letizia Mannella dice:

«Quello che è veramente importante in questa vicenda è che deve insegnare a noi donne di non andare mai all’incontro della spiegazione. È un momento da non vivere mai, perché estremamente pericoloso».

Maria Gabriella Carnieri Moscatelli dice:

«Quando i vostri ex vi propongono un ultimo incontro, un chiarimento, non ci andate. Per nessuna ragione»

Maria Carla Bocchino dice:

«Mai accettare l’ultimo appuntamento con l’ex, è il più pericoloso e spesso quello fatale»

Spesso quello fatale? Spesso?
Estremamente pericoloso?
Non andarci per nessuna ragione?
Sembra che queste gentili femministe non abbiano mai visto un numero in vita loro, perché altrimenti non si spiega l’uso di questi avverbi e aggettivi senza un minimo supporto numerico ovvero senza un minimo senso logico.
Ha ancora meno senso che dire: «mai avere a che fare con gli immigrati, hanno un tasso di criminalità molto più alto degli italiani, è pericoloso!»

Questo razzismo verso i maschi, però, è ampiamente tollerato, in questi strani tempi mascherati di tolleranza. Se sei maschio e vuoi sfuggire ad esso devi semplicemente spegnere il cervello e allinearti a questa narrazione, come molti fanno per comodità.

Inoltre c’è chi propone di istituire un gruppo di bodyguards che deve accompagnare le donne a questi fantomatici appuntamenti pericolosi. Sembra di ricordare chi proponeva di mettere un poliziotto ad ogni angolo e l’esercito per strada per assecondare la percezione dell’aumento della criminalità.

È il tipico problema dell’emotività che schiaccia la razionalità e il femminismo dimostra in genere di maturare in persone molto emotive e – di conseguenza – poco razionali.

L’Italia (specie il sud) è il paese più sicuro in UE per le donne

Tra i 27 paesi dell’UE, l’Italia ha tra i più bassi tassi di omicidi. Come rivela l’Istat nel 2020 (ultimo anno in cui si hanno disponibili tutti i dati a livello europeo) il valore italiano di 0,48 omicidi ogni 100.000 abitanti è stato più alto soltanto rispetto a quello del Lussemburgo. Considerando però che quest’ultimo è un piccolo stato di appena 640.000 abitanti, il dato non è statisticamente rilevante e pertanto non va considerato (sarebbe bastato un omicidio in più per cambiare completamente il valore). 

Pertanto possiamo dire che statisticamente l’Italia è il paese più sicuro in UE in fatto di omicidi. Anche per gli omicidi di donne i valori italiani sono più bassi e pari a 0,38 omicidi per 100mila donne (0,66 la media europea).

Una donna italiana ha quasi metà delle probabilità di essere uccisa rispetto alla media europea costituita dai dati di paesi che ci vendono come più civili e progressisti dell’Italia.

Per rendere meglio l’idea, secondo dati Eurostat pubblicati alcuni anni fa, nell’iper-progressista Svezia si registrano 178 violenze sessuali ogni 100.000 abitanti. In Italia 6,58.

Il sud «bigotto» e «maschilista» è il doppio più sicuro del nord

In valori su 100.000 abitanti, nel 2021 sono state uccise:

  • 0,27 donne al sud
  • 0,35 donne al centro
  • 0,46 donne al nord

Possiamo constatare che le donne del sud (spesso etichettato come bigotto e maschilista perché meno emancipato) hanno quasi la metà delle probabilità, rispetto a quelle del nord, di essere uccise. Se lo consideriamo come uno stato a sé, il sud Italia è per le donne il più sicuro d’Europa.

Anche in questo caso, il dato peggiore lo ritroviamo nei luoghi più “emancipati”, perciò appare sempre più ridicolo – come fa la narrazione dominante – imputare questi omicidi alla cultura tradizionale. Al contrario, andrebbero imputati alla cultura «aperta» in cui viviamo.

Di fronte a questi dati qualche femminista prova ad arrampicarsi sugli specchi dicendo che al sud le donne sono più al sicuro semplicemente perché accettano maggiormente di essere sottomesse, mentre al nord sono più emancipate e questo favorirebbe gli omicidi. Quindi dovrebbero giustificare con questa teoria anche il più alto tasso di omicidi di donne nei paesi europei iper-progressisti.

Eppure queste stesse persone hanno sempre disegnato l’uomo del sud Italia come più maschilista, geloso o possessivo. Di conseguenza quello del nord sarebbe più aperto mentalmente e rispettoso. Se sono diverse le donne, sono diversi anche gli uomini. Quindi perché al nord non registriamo un tasso di omicidi non dico migliore, ma almeno uguale a quello del sud?

È evidente che il punto della questione è un altro e loro non lo colgono, ma è difficile comunicarlo a persone per le quali qualsiasi donna abbia deciso di diventare madre e non lavorare è una schiava a prescindere.

È evidente che non hanno mai sperimentato, in una famiglia, l’essere amati, considerandolo perciò improbabile o non sapendo nemmeno che cosa sia. Eppure è questo il vero antidoto alla violenza. E forse è proprio dove c’è più tradizione (sud Italia rispetto al nord Italia, Italia rispetto al resto d’Europa) che si ama di più e perciò si uccide di meno.

Le maggiori emergenze uccidono i maschi

Ogni anno circa 100 donne in Italia vengono uccise. Ogni vita vale l’infinito e pertanto il fenomeno non va mai sminuito, così come non va ingigantito. Andrebbe rappresentato per quello che è, magari non dimenticando emergenze 10 o 30 volte più grandi che, però, toccano la popolazione maschile e sembra che solo per questo non hanno lo stesso risalto.

Suicidi: strage di maschi

Secondo l’ultima rilevazione Istat, nel 2020 in Italia si sono suicidate 3.748 persone di cui:

  • 2.945 maschi (78,6%)
  • 803 femmine (21,4%)

Il numero di donne che si suicida ogni anno è 8 volte superiore a quello del dato gonfiato sui femminicidi. Quello degli uomini 30 volte superiore. È un fenomeno tanto più urgente quanto più taciuto.

Ogni 5 persone che si suicidano, 4 sono maschi. Un dato che difficilmente ti racconteranno in Tv, altrimenti come potrà la narrazione dominante sostenere che la nostra società privilegia gli uomini e penalizza le donne?

Le ragioni alla base di questa differenza, infatti, riguardano le maggiori pressioni che la società mette sul maschio che deve avere certe performance, raggiungere certi risultati, sostenere costantemente la sua famiglia, ecc. Al contrario, la donna è più libera e meno carica di pressioni e aspettative, anche se Chiara Ferragni ed Elodie dicono il contrario, ma poi, per fortuna, ci sono i dati.

La donna può lavorare o non lavorare e per la società va bene uguale. Per l’uomo no. Basti pensare che oggi l’esclusione sociale di un uomo senza lavoro stabile, auto e possibilità di poter offrire anche solo una cena al primo appuntamento, è infinitamente più alta rispetto a quella patita da una donna in pari condizioni. Una donna senza lavoro trova molto più facilmente qualcuno che si occupi di lei.

Secondo rilevazione dell’ISS (Istituto superiore di Sanità), i tassi di suicidio più alti si registrano nel nord Italia, mentre i più bassi al sud. Anche qui la tradizione non sembra fare così male.

Ma il potere dominante, purtroppo, non vuole che l’uomo scenda dall’albero, bensì che ci salga anche la donna. Non vuole che l’uomo allontani da sé le illusioni del potere e del consumo imposte nei nostri tempi, ma vuole che ne diventi schiava anche la donna. Questo è il grande inganno generale alimentato dal capitalismo e dal femminismo nostrano.

I suicidi dei padri-separati e i senzatetto quasi sempre uomini

In Italia ogni anno si suicidano circa 200 padri separati, il doppio dei femminicidi, e sono spinti a farlo “in quanto uomini”. La ragione è che il peggiore trattamento subito dai tribunali in genere porta l’uomo – in un solo colpo e a prescindere da chi abbia ragione nella causa di divorzio – a perdere figli, casa e per contraccolpo psicologico è esposto al rischio di perdere anche il lavoro.

Diversi padri separati finiscono per dormire in macchina. Anche per questo per un uomo è molto più probabile diventare un senzatetto. Secondo l’Istat la popolazione dei senza dimora si suddivide tra:

  • 85,7% uomini
  • 14,3% donne

Quando qualcuno lamenta il fatto che i più alti posti di potere sono occupati da uomini, si può fargli notare che anche i caduti in disgrazia sono prevalentemente uomini.

Difficilmente la narrazione dominante esporrà la realtà dei suicidi dei padri-separati presentandola, inoltre, nella sua drammaticità doppia rispetto a quella dei femminicidi. Difficilmente vi parlerà dei senzatetto come un problema prevalentemente maschile. Verrebbe messo in discussione un dogma di cui non potrebbe fare a meno.

Per loro è più importante concentrare gli sforzi per fare servizi e spot, come uno mandato in onda di recente, in cui viene rappresentato il modello di donna che, guidando una moto di grossa cilindrata, va a prendere un uomo da casa sua. È più importante quell’attività di manipolazione dall’alto finalizzata all’appiattimento delle differenze di genere per poi creare nuovi stereotipi (perché chi non si adegua è “all’antica”), nell’incapacità di vedere la bellezza nella differenza.

I dati in questione, raccolti da un’indagine dell’Eures, fanno riferimento al 2009 e si evince che:

  • si sono suicidati 253 uomini separati (28,4 ogni 100.000 abitanti) a fronte di 64 donne separate (4,8 ogni 100.000 abitanti).
  • un uomo separato si suicida 4,2 volte più di un uomo sposato (28,4 vs 6,8 ogni 100.000 abitanti), mentre una donna separata 2,8 volte di più (4,8 vs 1,7 ogni 100.000 abitanti).
  • le persone sposate registrano il più basso tasso di suicidi (6,8 uomini e 1,7 donne ogni 100.000 abitanti) rispetto a celibi/nubili, vedovi e separati/divorziati.

Incidenti sul lavoro: strage di maschi

Secondo i dati rilevati dall’Osservatorio di sicurezza sul lavoro di Vega, nel 2022 sono morte 790 persone sul luogo di lavoro, di cui

  • 730 uomini (92,4%)
  • 60 donne (7,6%)

Se consideriamo anche le morti avvenute in itinere (ossia durante il viaggio casa-lavoro), le morti bianche totali salgono a 1.090, di cui:

  • 970 uomini (89%)
  • 120 donne (11%)

Secondo i dati rilevati dallo stesso Osservatorio nel 1° semestre del 2023, sono morte 346 persone sul luogo di lavoro, di cui:

  • 346 uomini (93,8%)
  • 23 donne (6,2%)

Se consideriamo anche le morti avvenute in itinere nello stesso semestre, le morti bianche totali salgono a 450, di cui:

  • 416 uomini (92,4%)
  • 34 donne (7,6%)

Il numero degli uomini che ogni anno muore per lavoro è circa 10 volte superiore a quello dei femminicidi e ciò avviene davvero “in quanto uomo”.

Secondo i dati pubblicati dall’Istat il 31 gennaio 2023, in Italia sono occupate 9.763.000 donne e 13.452.000 uomini. Le donne rappresentano il 42,05% dei lavoratori attivi, ma l’incidenza tra le morti bianche avvenute sul luogo di lavoro è del 7,6%. Come mai questo squilibrio?

Come ben si può comprendere, è dovuto al fatto che l’uomo è più occupato nei lavori più rischiosi e pesanti, quindi nell’agricoltura, nelle fabbriche, sui cantieri, mentre l’inserimento lavorativo femminile si è concentrato maggiormente sui lavori d’ufficio e in generale su quelli meno rischiosi. E non vediamo donne fare la fila o chiedere quote rosa per i primi.

Il femminismo si potrebbe rappresentare come un buffet in cui prendi quello che ti piace e lasci le portate indigeste.

Comunque se la situazione fosse stata opposta, questi dati sarebbero stati urlati ai quattro venti dai mass media e rinfacciati dalla propaganda femminista. Dando la colpa al patriarcato, ovviamente. Invece è difficile trovarli persino sugli stessi rapporti Istat e Inail, dove è necessario estrapolarli da diverse rilevazioni e incrociarli calcolando le percentuali.

Manipolazioni della realtà

I rapporti Istat e Inail, e i siti di informazione in genere, omettono di sottolineare e di spiegare le ragioni di questa differenza che penalizza gli uomini. Al contrario, anche loro mettono in risalto qualsiasi piccolo dettaglio possa essere utile per sostenere la propaganda della donna-vittima. Talvolta anche barando sull’interpretazione dei dati.

In questo documento pubblicato dall’Inail, ad esempio, si dice che nel 2021 la percentuale di morti bianche femminili avvenute in itinere rispetto a quelle totali femminili è del 40%, il doppio rispetto all’incidenza delle stesse che si registra tra gli uomini che è del 21%. Si sostiene quindi che la donna sia maggiormente vittima di questi incidenti e che bisogna intervenire, ma, se non si fa finta di non saper leggere i dati, si comprende che la realtà è completamente opposta.

È tanto elementare quanto imbarazzante spiegarlo, ma quella percentuale è semplice conseguenza logica del fatto che gli uomini muoiono con una sproporzione ancora maggiore sul luogo di lavoro, perché svolgono le attività più rischiose. Se morissero di meno, anche la loro percentuale di mortalità in itinere salirebbe. Infatti, in termini assoluti (dati aggiornati al 2022), gli uomini muoiono più delle donne sia sul luogo di lavoro (730 vs 60 nel 2022) sia in itinere (300 vs 60 nel 2022) con una sproporzione sfavorevole grandissima in entrambi i casi.

Inoltre lo stesso documento mette in evidenza che la donna sviluppa un po’ più frequentemente problemi muscoloscheletrici in certi settori rispetto all’uomo, ma di una comparazione corretta sulla mortalità nemmeno l’ombra, benché rappresenti una circostanza ben più grave.

La conquista della realtà per com’è e non per come viene raccontata è una delle sfide più grandi della nostra epoca.

Incidenti stradali: strage di maschi

Secondo l’ultima rilevazione Istat riferita al 2021, in Italia ci sono stati 2.875 incidenti stradali mortali, in cui hanno perso la vita:

  • 2.396 uomini (83,34%)
  • 479 donne (16,66%)

Il numero di donne che muoiono ogni anno per incidenti stradali è 5 volte superiore a quello dei femminicidi, mentre quello degli uomini è 24 volte superiore.

Quali sono le ragioni di questa sproporzione? Gli uomini guidano di più per motivi di lavoro? Sono più pratici nella guida e corrono più rischi in manovre e sorpassi? Sono più attenti se hanno a bordo una donna? Guidano maggiormente le più pericolose moto a grossa cilindrata? Sono più dediti al ciclismo su strade provinciali non molto sicure? Incorrono in maggiori rischi stando più spesso seduti dalla parte del volante?

A prescindere da quale sia la corretta combinazione di ragioni, la realtà è che gli uomini ne sono più vittime e le donne più tutelate. Se fosse stato al contrario, non ci sono dubbi che il dato sarebbe stato abbastanza spesso su tutti i giornali e telegiornali per incolpare il patriarcato.

Eppure, nonostante ciò, tradendo ogni senso di realtà, i giornali sono capaci di parlare di “strage di donne” sulle strade perché sono riusciti a trovare, in una specifica città e in una specifica tipologia di incidente, un caso in cui sono morte 5 donne in 6 incidenti. Ed ecco il titolo allarmante e fuorviante:

I dati parlano di “strage di uomini” e i giornali – lungi dall’utilizzare una simile espressione troppo contraria alla narrazione dominante – riescono a parlare paradossalmente di “strage di donne”. È chiaro quanto è importante riappropriarci della verità?

Carcere: dramma maschile

È risaputo che le condizioni dei carcerati siano pessime e che finire in quel posto sia un’esperienza terribile, traumatica e qualche volta fatale.

Secondo i dati raccolti da Italia in dati, le persone maggiorenti incarcerate al 31 dicembre 2021 in Italia si suddividono tra:

  • 51.897 uomini (96%)
  • 2.237 donne (4%)

Il discorso è sempre quello: se vogliamo assumere che tutto è culturale, allora la cultura che porta in carcere maggiormente gli uomini è la stessa che protegge le donne scongiurando per loro questo destino. Alla fine dei conti, nascere donna significa avere di gran lunga minori probabilità di finirci dentro e anche in questo caso i dati sono fortemente favorevoli al sesso femminile.

Suicidi in carcere: strage maschile

Tra i carcerati c’è un tasso di suicidi molto più alto rispetto al resto della popolazione, per ovvi motivi. Secondo i dati raccolti nel 2022, nelle carceri italiane si sono suicidate 84 persone di cui:

  • 79 uomini (94%)
  • 5 donne (6%)

Aspettativa di vita

Secondo rilevazione Istat, al 1 gennaio 2022 in Italia risiedono 58.983.122 persone di cui:

  • 28.724.780 uomini (48,7%)
  • 30.258.341 donne (51,3%)

Potremmo dire che in Italia mancano all’appello circa 1 milione e mezzo di uomini. Difatti i 2 sessi statisticamente sono distribuiti in maniera equa alla nascita, tuttavia gli uomini hanno un’aspettativa di vita più breve.

Su questa statistica incidono tanti fattori tra cui quelli relativi agli ambiti di cui si è parlato in questo articolo e che portano i maschi anche ad ammalarsi maggiormente di cancro.

Anche in questo caso, se la situazione fosse stata opposta sappiamo che non si sarebbe parlato d’altro che di un “genocidio di donne” causato dalla cultura patriarcale, imputato al ruolo di mogli e madri, di lavoratrici e quant’altro sarebbe stato possibile strumentalizzare per sostenere la propaganda.

Questione culturale e stereotipi

Ad ogni nuovo femminicidio puntuale arriva la sentenza degli “intelligenti” del nostro tempo: è colpa del patriarcato!
Dicono, insomma, che la causa sia nell’immagine della donna che ha la nostra cultura, come un oggetto a disposizione dell’uomo.

Tale tesi dominante, a cui si aderisce per conformismo, si rivela estremamente fallace, contradditoria ed ipocrita, per una serie di ragioni.

La fallacia logica natura-cultura

Se fosse solo una questione culturale, perché questa differenza si conferma in maniera trasversale in tutte le culture, senza eccezioni?

Ok, facciamo finta che è tutta una questione culturale, ma questa cultura che renderebbe peggiori gli uomini non è la stessa che rende migliori le donne? Così sicuri che stanno mantenendo le loro qualità sotto una propaganda femminista totalizzante che le spinge proprio all’emulazione degli uomini?

Non sembra affatto. In realtà si sta sempre più scoprendo che la violenza non ha genere, perché nasce in ogni essere umano e ha ragioni ben più profonde rispetto a certi slogan che circolano.

La fallacia analitica

Ok, tu guardi il mondo e vedi che gli uomini uccidono molto più delle donne. Quindi deduci che in un mondo di sole donne tutti questi fenomeni si ridurrebbero drasticamente.

Per pensare questo bisogna però ignorare l’immensa pluralità di fattori che determinano la criminalità, oltre al fatto che uomini e donne, essendo diversi per natura, si dividono i compiti secondo le loro naturali inclinazioni, da sempre e ovunque.

Ma se fosse vero che è tutta una questione culturale, allora quella cultura che vede più spesso gli uomini come autori di omicidi è anche la stessa che tutela le donne proteggendole da circostanze pericolose in cui a soccombere sono prevalentemente gli uomini.

Se è vero che il problema sono gli stereotipi, allora proprio l’utopistico annullamento di essi metterebbe maggiormente in pericolo la donna che pagherebbe a caro prezzo la minor forza fisica.

Sappiamo, ad esempio, che gli omicidi “tra uomini” avvengono in buona parte nell’ambito della criminalità organizzata e microcriminalità. Ambiti in cui le donne sono più tutelate. Annullando gli stereotipi, quei fattori che determinano la criminalità “includerebbero” anche le donne e troveremmo anche loro ben rappresentate in questo mondo.

Facciamo un esempio. Una delle cause della criminalità è la povertà, specie in una società in cui è vista come una colpa. Immaginiamo una coppia con un figlio. L’uomo, coerentemente con quello che viene definito uno “stereotipo di genere”, va a fare una rapina mentre lei resta a casa con suo figlio. Essendo però quella una zona già controllata da un gruppo criminale, viene ucciso in un conflitto a fuoco per aver invaso il loro territorio. Chi è stato tutelato dallo stereotipo e chi, invece, penalizzato?

Anche questo è patriarcato, ma quando si leggono le statistiche si deduce ideologicamente e ingenuamente che è il maschio ad essere tossico.

La cultura che ereditiamo valorizza pienamente la donna

La cultura tanto criticata, in realtà, non insegna agli uomini – nemmeno indirettamente – ad uccidere o stuprare. Queste sono sempre conseguenze rare e catastrofiche di problematiche ben più complesse.

Se facciamo attenzione scopriamo che la cultura che ereditiamo genera, in realtà, una totale repulsione per omicidi o stupri, specie se la vittima è una donna. Altrimenti non si spiega perché gli elettori di Salvini chiedono in massa la castrazione chimica per gli stupratori e l’ergastolo o la pena di morte per gli assassini.

Così come non si spiega perché chi finisce in carcere per aver fatto male ad una donna viene messo in cella di isolamento per evitare che altri carcerati (uomini) gli facciano la pelle perché ha violato un principio sacro: “non si fa del male alle donne”.

Alla fine dei conti i dati sugli omicidi sono favorevoli alle donne, ma questo non frena la narrazione dominante.

Il giochetto illogico della discriminazione

Quando fai notare alle femministe e ai femministi che, in realtà, in questo mondo che definiscono “patriarcale” la donna ha anche tanti privilegi rispetto all’uomo ed è quest’ultimo che più spesso si ritrova a soccombere, costoro rispondono che “anche questo è patriarcato!”. E spiegano che il patriarcato fa male anche agli uomini.

A questo punto, però, dovrebbero rivedere la loro definizione di patriarcato. Perché di fatto presupponevano che fosse il privilegio degli uomini sulle donne. Poi gli fai notare che molti privilegi li hanno proprio queste ultime e la maggior parte delle disgrazie tocca proprio gli uomini, e allora il patriarcato diventa quella cosa che danneggia anche i maschi, finendo per essere la causa dei mali di tutti. Mali che – secondo le loro teorie – si risolverebbero semplicemente facendo finta che uomini e donne sono uguali, redistribuendo così i pro e i contro che caratterizzano entrambi i sessi nel loro essere differenti.

Non sembra un’idea tanto geniale.

In secondo luogo, se davvero la pensassero così, non si capisce perché non chiedono le quote rosa sui cantieri o perché non fanno lotte affinché nelle cause di divorzio i figli vengano affidati al padre e non quasi sempre alla madre, se anche questo è patriarcato.

Perché evidentemente c’è un patriarcato che non gli piace e uno che gli sta bene, così il femminismo si palesa come un buffet in cui prendi solo le cose che ti piacciono e lasci le portate indigeste. Facile, così.

Il caso Giulia Tramontano

Un caso che ha fatto molto clamore, e su cui sono state costruite intere trasmissioni televisive per giorni, è stato quello dell’omicidio di Giulia Tramontano per mano di Alessandro Impagnatiello, il 27 maggio 2023.

Giulia era incinta, ma aveva scoperto che lui stava anche con un’altra con cui anche aveva avuto un figlio che, però, di comune accordo, avevano deciso di abortire. Raccontava tante menzogne per poter continuare questa doppia vita.

Molte voci influenti, tra cui quella del giornalista Fabio Salamida, hanno dato la colpa dell’accaduto alla tradizione.

Che la classe intellettuale sia ormai alla deriva, ignorante e volgarizzata, non è certo una novità, ma in questo caso è proprio sufficiente guardare i tratti principali della storia per poter ribaltare questa frittata ideologica e, a questo punto, imputare il caso all’emancipazione e al progressismo.

Difatti il protagonista di questa storia è nella pratica favorevole:

  • al superamento della monogamia, dato che stava con più di una donna
  • alla sessualità libera, indiscutibilmente
  • ai figli fuori dal matrimonio, avendone già uno di 6 anni e avendone concepiti altri due con due donne diverse
  • all’aborto

Che bigotto tradizionalista!

Inoltre il quadro psicologico di Alessandro Impagnatiello lo presenta come una persona narcisista, un problema tipico proprio dei nostri tempi e non ascrivibile alla tradizione. Come scrive il noto psicoterapeuta Massimo Recalcati nel suo articolo intitolato “Innamorarsi di sé: il vizio capitale oltre ogni limite”:

Per i padri della Chiesa la superbia è il peccato narcisistico per eccellenza. Tommaso d’Aquino lo specifica con eleganza: «Il superbo è innamorato della propria eccellenza». Si tratta di una forma di idolatria che l’epoca ipermoderna ha particolarmente esaltato: al posto del culto di Dio avviene il culto del proprio «Io» assimilato alla potenza di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia, “Iocrazia”, afferma Lacan. L’ordine della creazione viene capovolto: l’uomo compete con Dio – come figura radicale dell’alterità – negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall’Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l’altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per i padri della Chiesa è questa la “vanagloria” di cui si nutre il superbo: farsi autonomo, indipendente, cancellare il debito, credere alla follia del proprio «Io» autonomo e sovrano. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due facce di una sola medaglia.

Il caso Michelle Maria Causo

Un mese dopo, il 28 giugno 2023, risalta alle cronache l’uccisione di un’altra ragazza di nome Michelle. Sui profili social dell’autore, originario dello Sri Lanka, si trovano video e foto in cui fuma hashish, cannabis e inneggia al trap. Durante la perquisizione sono state rinvenute anche altre sostanze stupefacenti.

Inoltre appare ossessionato dai soldi: convideva reel in cui contava mazzetti di banconote da 50 euro. Gli inquirenti ipotizzano che prima dell’omicidio il giovane possa avere consumato la cosiddetta “bevanda viola dello sballo” (purple drank), un mix di droghe e farmaci molto diffuso tra gli appassionati del genere trap.

È evidente che anche in questo caso la tradizione non c’entra nulla, ma piuttosto è un omicidio figlio delle solite concezioni di finta libertà che ereditiamo dal ’68.

Un altro aspetto della vicenda è che i giornali hanno parlato di «femminicidio» anche se si affermava, al contempo, che tra i due non ci fosse alcuna relazione e che il movente sia stato un debito relativo alla vendita di “fumo”.

Ciò fa riflette anche su come questa parola venga abusata e praticamente utilizzata per ogni omicidio in cui semplicemente la vittima è donna.

Da cosa nasce la violenza?

Per rispondere a questa domanda prendiamo in prestito le parole di Pasolini che, di fronte all’esplosione di violenza che ci fu negli anni ’70 in concomitanza con la rivoluzione antropologica degli italiani, scrisse:

Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria. Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo.

Potresti mai uccidere una persona se la ami? Potresti mai uccidere una donna incinta se considerassi sacre la sua vita e quella che porta in grembo? Potresti mai diventare un narcisista se accettassi umilmente di amare il destino di qualcun’altro?

Purtroppo il consumismo e il progressismo che da esso deriva, come potere irreligioso e antisentimentale, ha ridotto e distrutto la capacità d’amare. Si può definire “Amore liquido”, come il titolo del libro del noto sociologo Bauman.

Quando non c’è più l’amore, resta solo il potere di possedere e di consumare e anche l’amore si riduce a possesso e/o consumo. A quel punto si cerca di risolvere con i moralismi su ciò che si fa e non si fa, con il pugno duro della legge e della giustizia per attenuare il problema, ma il seme del male è ormai piantato dentro.

La violenza, in fondo, nasce dall’insoddisfazione che tutto ciò genera. Se sono insoddisfatto, cercherò una causa che individuerò all’esterno e pretenderò che qualcuno (una persona o la società) risolva la mia insoddisfazione. Se l’insoddisfazione diventasse insopportabile, potrei anche diventare violento, non avendo più nulla da perdere. Ciò avviene quando un uomo o una donna fanno violenza tra di loro, fisica e psicologica. E avviene anche quando il femminismo innesca il conflitto tra donne e uomini.

La violenza si previene con l’amore perché solo quest’ultimo redime, come testimonia un grande film di Fellini che si intitola «La strada».

Femminismo e pregiudizi sulla tradizione

Quando nel 1912 è affondato il Titanic, le donne sono prevalentemente salite sulle scialuppe di salvataggio e gli uomini sono prevalentemente morti nella nave colata a picco, anche il comandante.

Tradizionalmente gli uomini sono andati a spaccarsi la schiena nei campi e nelle fabbriche, dalla mattina alla sera per tutta la vita, condividendo il frutto del lavoro con la propria famiglia. Così come erano in prima linea al fronte per andare a morire in guerra.

Anche le donne hanno compiuto tanti sacrifici, meno in senso strettamente lavorativo, ma maggiori nell’educazione e nella cura dei figli e non solo. Pensiamo inoltre ai rischi collegati al parto e relativa alta mortalità in periodi in cui una vera assistenza sanitaria non esisteva.

Tradizionalmente sia donne che uomini si sono spesi e lo hanno fatto per amore. Era quest’ultimo che dava loro il senso dei loro sacrifici e perciò anche la forza. Pasolini scrisse:

La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità «reale». Oggi, questa felicità – con lo Sviluppo – è andata perduta.

E ancora, parlando nello specifico della donna:

Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza – malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa – ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.

È la felicità dell’essere amati che rende protagonisti, a prescindere da quali siano i propri compiti e a prescindere da quanto questi siano faticosi, perché hanno un senso, uno scopo, una bellezza. Come emerge nel dipinto di Van Gogh “Primi passi”.

Sant’Agostino disse:

Quando si ama, non si fatica, o, se si fatica, questa stessa fatica è amata.

Chiaramente il mondo non è mai stato perfetto e mai lo sarà, ma verso la tradizione ci sono infiniti pregiudizi dovuti all’incapacità di tornare ad essa o al tipico errore di confonderla con una certa ipocrisia e moralismo borghese, come se la storia fosse stata solo quella.

Pasolini disse che il compito di un intellettuale deve essere quello di sfondare i muri della borghesia e andare a conoscere gli immensi altri mondi che ci sono (c’erano) lì fuori; e nella “Poesia della tradizione” scrisse:

Oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto

Perché la propaganda maschile è femminista?

In gran parte dell’articolo abbiamo parlato di una propaganda che deforma la realtà per far passare l’idea dell’uomo carnefice e privilegiato mentre la donna è vittima e penalizzata. Ma perché questa propaganda del potere, messa in piedi da multinazionali miliardarie e dai mass media più influenti, considerando che dietro essi ci sono effettivamente dei maschi?

Che interesse hanno i maschi più potenti del mondo capitalistico a propagandare femminismo e gender? Indubbiamente è una bella domanda, a cui pochi temo sappiano rispondere.

Già 50 anni fa il profeta Pasolini sosteneva che il Potere, una volta riberatosi della tradizione, può ora esprimersi con tutta la sua forza repressiva, come mai visto prima nella storia. Partiamo da queste sue parole:

«La società preconsumistica aveva bisogno di uomini forti, e dunque casti. La società consumistica ha invece bisogno di uomini deboli, e perciò lussuriosi».

Nel mondo preconsumistico e pretecnico le attività lavorative erano faticose e la vita era dura. La società, per sopravvivere, aveva bisogno di uomini forti. Ma di quale forza parliamo? Indubbiamente è la forza data della ragione per sui si vive e si fanno le cose.

Per potersi svegliare prestissimo la mattina e andare a zappare la terra, tornare a casa distrutti la sera, andare a coricarsi presto e ricominciare il giorno dopo, era necessario avere una ragione grande e bella per farlo. L’uomo era dedito al sacrificio e al risparmio e valori come quelli della fede, dell’amore, dell’amicizia e della famiglia erano fondamentali per affrontare ciò. La castità è presupposto necessario.

Con l’avvento della società consumista cambia tutto ed è una tragedia umana, un disastro totale, come ampiamente hanno argomentato molti autori come Bauman ed Erich Fromm. Lo spiega molto bene anche Serge Latouche che dice:

«Una società felice consuma poco. Per indurre a consumare bisogna creare insoddisfazione».

Se l’uomo avesse conservato quei valori, quella rettitudine, quella felicità reale, quella capacità d’amare, avrebbe conservato anche la consapevolezza di ciò di cui ha realmente bisogno e difficilmente avrebbe acconsentito al lavorare di più per potersi comprare la macchina nuova, la vacanza esotica e i vestiti firmati.

Avrebbe continuato a consumare il necessario o qualcosa in più di realmente utile, rinunciando al superfluo. Avrebbe consumato meno e quindi lavorato meno, dato che l’industrializzazione e la tecnologia avevano abbattuto i costi di produzione. Magari sarebbe bastato lavorare poche ore al giorno per poter soddisfare i bisogni primari, mentre tutti quei valori sarebbero stati gratis. Ciò sarebbe stato un serio problema per i profitti del capitalismo. Bisognava creare insoddisfazione.

Come drammaticamente scrive Bauman nel libro “Consumo, dunque sono”:

Rispetto ai nostri antenati noi non siamo più felici. Al contrario, siamo alienati, isolati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce. […] Consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. È una guerra silenziosa e la stiamo perdendo.

In questo processo la libertà sessuale che – come sappiamo – è stata imposta dall’alto, è stata un elemento fondamentale. Pasolini la definisce «una caratteristica irrinunciabile della qualità della vita del consumatore». La sessualizzazione difatti de-sentimentalizza la società, preclude ogni amore (ridotto ad ormone) e quindi genera quell’insoddisfazione, quell’individualismo, quel vuoto che lascia ogni persona nella necessità di abbandonarsi all’istinto, al piacere immediato e perciò all’edonismo consumista.

Ciò ha portato poco dopo alla legge sul divorzio (dato che l’amore non era più una certezza) e a quella sull’aborto (come garanzia di una libertà sessuale illimitata). Ed ecco come il progressismo è fondamentale per l’affermazione e l’espansione capitalista, come continua ad esserlo nei nostri giorni.

Infatti cosa oppone resistenza a questo processo? Certamente i valori della famiglia tradizionale e in particolare quelli delle donne che ancora si ostinano ad innamorarsi, sposarsi e fare figli anziché puntare sulla carriera lavorativa e sul guadagno. Avere buona parte delle donne che non sentono il bisogno di conformarsi è per la società consumistica un bel problema.

Questo potere irreligioso e antisentimentale, infatti, ha travolto prima gli uomini che le donne. Queste ultime per alcuni decenni sono state molto più impermeabili. Abbiamo infatti attraversato una fase in cui la donna provava ancora dei sentimenti e ambiva a vivere il grande amore, mentre l’uomo si dimostrava più superficiale. Come scrive Alessandra Ciattini:

Siamo di fronte a un nuovo modello di umanità – non sono certo io a dirlo – che ha rinunciato alla sublimazione e alla consapevole riappropriazione delle motivazioni inconsce del nostro agire, lasciandosi andare alla soddisfazione di un qualsivoglia stimolo, evitando di lasciarsi coinvolgere integralmente. In questo senso l’amore non è più di moda, perché troppo impegnativo e richiedente la lunga durata. Questa convinzione, in passato attribuita quasi esclusivamente agli individui di sesso maschile, è diventata oggi una rivendicazione dello stesso genere femminile, che vede in tale atteggiamento una conquista e una forma di emancipazione.

Bisogna quindi colpire la donna e aizzarla contro fantomatiche ingiustizie e discriminazioni in nome di questa finta emancipazione. Ecco perché la propaganda, creata dai maschi più potenti al mondo, è di stampo femminista. E ogni giorno i principali protagonisti dell’informazione lavorano in tal senso, ad esempio pubblicando frasi di Vip donne che, dall’alto dei loro noiosi privilegi e delle loro finte libertà, sfogano la propria insoddisfazione inveendo sempre contro il genere maschile.

Pasolini scrisse:

«A tale potere non interessa una coppia creatrice di prole (proletaria), ma una coppia consumatrice (piccolo borghese)».

Il Potere ha visto e continua a vedere nel femminismo una grandiosa opportunità e la sfrutta appieno per mettere la donna contro l’uomo creando questa competizione, per farle credere che se non si realizza secondo il modello borghese maschile la sua vita sarà un fallimento, che i figli sono un peso e la maternità un’ingiustizia, così che entrambi i sessi si concentrino solo sul ciclo della produzione e del consumo. Questo è il vero stereotipo maschilista creato dal Potere per distruggere la femminilità.

Ovviamente tale propaganda trova ormai un terreno fertile che è quello dell’insoddisfazione generale. Quando parla di parità di genere, trova l’applauso di tutti anche se sta parlando di una parità nelle logiche dell’individualismo consumista. E nessuno osa mai mettere in discussione questo dogma della parità anche perché verrebbe accusato delle peggiori nefandezze ed emarginato da questa società «tollerante».

Secondo tale dogma, finché la donna non partecipa alla produzione nella stessa misura dell’uomo, ci sarà da lottare per raggiungere questo obiettivo, dietro ideali di finta tolleranza, finta inclusività e finta parità. Assurdamente senza considerare che:

  • Nessuno ha stabilito che sia quello il nostro bene. E non lo è, dato che lo facciamo per il superfluo.
  • La differenza di quantità, impegno (e quindi guadagno) nel lavoro tra uomo e donna è ovvia in una società in cui ancora esistono delle famiglie “proletarie”. Ci si dovrebbe preoccupare se tale differenza sparisse.
  • Si sottolinea che l’uomo guadagna di più (anche se il «gender pay gap» è una bufala), ma non che i beni, in ambito familiare, sono condivisi. Guardando tutti i fattori si scopre che la categoria donna non è affatto discriminata. Anzi, sono gli uomini a costituire al maggior parte dei senzatetto.
  • Si sta imponendo una visione individualistica in un mondo privo d’amore. La discriminazione è proporzionale alla mancanza di quest’ultimo.

La rinuncia alla famiglia per dedicarsi totalmente al lavoro non è oggi frutto di un’esplosione di vocazioni per le professioni. Si tratta, al contrario, di un’atrofizzazione del desiderio (come rilevato dal Censis) a cui il potere di apparire, di guadagnare e di consumare è l’unica risposta che si riesce a dare.

Bisogna guardare i fatti interiori e non quelli esteriori: come stanno veramente le persone? Le donne “libere in tutto” secondo questa idea di libertà sono felici e prive di nevrosi, rabbia e stress? Sono liete, serene e capaci di stupirsi delle piccole cose? Provate ad osservare, a fare dei confronti tra tradizione e progresso, e poi a rispondere. Ricordando che «Molto ragionamento e poca osservazione, conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità».

Bisogna abbandonare le logiche di potere e le finte ideologie di parità con cui il capitalismo ci inganna. Bisogna tornare a quelle dell’amore e alla parità nell’essere felici. Solo allora riconosceremo la diversità insita in natura come una risorsa preziosa. Anche se al Potere non piace perché ci vorrebbe tutti appiattiti.

Articolo precedenteOra che non sono più innamorato (Gaber) – Significato e testo
Articolo successivoIl femminismo rende giustizialisti

4 Commenti

  1. Articolo magistrale
    solo una cosa mi lascia un dubbio: affermi che questa ondata deviata di femminismo è supportata “dal Potere”. Ora, sicuramente nei media a questa ideologia è dato sempre più spazio, e personalmente non ho elementi concreti per poter spiegare il perché. In questo mio vuoto di conoscenza si insinua la tua affermazione… alla quale però non so trovare corrispondenti tangibili per confermare tale tesi, se possibile sarei interessato a sapere se hai qualcosa di tangibile per perorare tale ipotesi.

    • Ciao Gianluca, grazie del commento. Ho cercato di spiegare il tuo dubbio nell’articolo, ma evidentemente non sono riuscito a farlo in modo chiaro e quindi provo a sintetizzare la risposta, nonostante sia molto complessa. Se viviamo in un mondo in cui non si ama più (“Amore liquido”, Bauman) e i valori “imposti” (e in cui si cade) sono quelli dell’autosufficienza (mi faccio e mi salvo da solo), del potere (apparenza, prestazionismo, consenso) e consumo (corpi e prodotti), allora la donna si trova indietro rispetto a questi ultimi perché alcune di loro sono ancora legate alla tradizione, magari si permettono di innamorarsi e sposarsi, di non lavorare o lavorare meno per prendersi cura dei figli o vivere solo con il lavoro del proprio marito/compagno. Da un lato questi ultimi contrastano con i valori borghesi dominanti e ciò genera nelle donne un’insoddisfazione che non avevano in passato (specie in altre classi sociali culturalmente diverse). Dall’altro questa insoddisfazione va a genio al capitalismo, che vorrebbe tutti (uomini e donne) a pieno regime nel ciclo produzione-consumo. Quindi la propaganda femminista del Potere viene da sé: hai una base di insoddisfazione (che richiederebbe ben altre risposte, però) e una strategia perfetta per consolidare la repressione capitalista. Insomma credo ci sia un motivo se su una donna uccisa dal compagno bigamo creano scandali giornalistici e trasmissioni televisive per settimane, mentre sui morti sul lavoro, un fenomeno 10 volte più grande che colpisce quasi sempre i maschi, c’è un silenzio tombale.

Lascia una risposta

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome