Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia – Pasolini

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Noi intellettuali tendiamo sempre a identificare la «cultura» con la nostra cultura: quindi la morale con la nostra morale e l’ideologia con la nostra ideologia.

Questo significa:

  1. che non usiamo la parola «cultura» nel senso scientifico.
  2. che esprimiamo, con questo, un certo insopprimibile razzismo verso coloro che vivono, appunto, un’altra cultura.

Per la verità, data la mia esistenza e i miei studi, io ho sempre potuto abbastanza evitare di cadere in questi errori. Ma quando Moravia mi parla di gente (ossia in pratica tutto il popolo italiano) che vive a un livello pre-morale e pre-ideologico, mi dimostra di esserci caduto in pieno, in questi errori.

Il pre-morale e il pre-ideologico esistono solo in quanto si ipotizzi l’esistenza di una sola morale e di una sola ideologia storica giusta: che sarebbe poi la nostra borghese, la sua di Moravia, o la mia, di Pasolini.

Non esiste, invece, pre-morale o pre-ideologico. Esiste semplicemente un’altra cultura (la cultura popolare) o una cultura precedente. É su queste culture che si innesta una nuova scelta morale e ideologica: per esempio, la scelta marxista, oppure la scelta fascista. Ora, tale scelta è essenziale. Ma non è «tutto». Infatti tale scelta, come Moravia stesso osserva, non va giudicata per se stessa, ma per i suoi risultati teorici o pratici (il cambiamento del mondo).

Come mai certe scelte giuste – per esempio un marxismo meravigliosamente ortodosso – danno risultati così orribilmente sbagliati? Esorto Moravia a pensare a Stalin. Quanto a me, non ho dubbi: i «crimini» di Stalin sono il risultato del rapporto tra la scelta politica (il bolscevismo) e la cultura precedente di Stalin (cioè quello che Moravia chiama, con disprezzo, pre-morale o pre-ideologico). Del resto non c’è bisogno di ricorrere a Stalin, alla sua scelta giusta e al suo fondo culturale contadino, clericale e barbarico. Gli esempi sono infiniti.

Anch’io, per esempio, secondo Maurizio Ferrara (che sull’«Unità» mi muove la stessa critica di Moravia, cioè mi ricorda severamente il valore essenziale e definitivo della scelta), ho fatto una scelta giusta, ma una cattiva applicazione: dovuta, pare, al mio irrazionalismo culturale, cioè alla cultura precedente in cui mi sono formato. Ora generalizziamo per milioni questi casi singoli. Milioni di italiani hanno fatto delle scelte (abbastanza schematiche): per esempio molti milioni di italiani hanno scelto il marxismo, o quanto meno il progressismo, altri milioni di italiani hanno scelto il clerico-fascismo. Tali scelte, come sempre avviene, si sono innestate in una cultura. Che è appunto la cultura degli italiani.

La quale cultura degli italiani è frattanto, però, completamente cambiata. No, non nelle idee espresse, non nella scuola, non nei valori portati coscientemente. Per esempio, un fascista «modernissimo», cioè manovrato dalla espansione economica italiana e straniera, legge ancora Evola. La cultura italiana è cambiata nel vissuto, nell’esistenziale, nel concreto. Il cambiamento consiste nel fatto che la vecchia cultura di classe (con le sue divisioni nette: cultura della classe dominata, o popolare, cultura della classe dominante, o borghese, cultura delle élites), è stata sostituita da una nuova cultura interclassista: che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, attraverso la loro nuova qualità di vita.

Le scelte politiche, innestandosi nel vecchio humus culturale, erano una cosa: innestandosi in questo nuovo humus culturale sono un’altra. Un operaio o un contadino marxista degli anni quaranta o cinquanta, nell’ipotesi di una vittoria rivoluzionaria, avrebbe cambiato il mondo in un modo: oggi, nella stessa ipotesi, lo cambierebbe in un altro modo. Non voglio fare profezie: ma non nascondo che sono disperatamente pessimista.

Chi ha manipolato e radicalmente (antropologicamente) mutato le grandi masse contadine e operaie italiane è un nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo che è il più violento e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze. Dunque, sotto le scelte coscienti, c’è una scelta coatta, «ormai comune a tutti gli italiani»: la quale ultima non può che deformare le prime.

Quanto agli altri interventi dell’«Espresso», quello di Facchinelli mi è oscuro. L’oracolo è stato un po’ troppo «a chiave». A quello di Colletti non rispondo perché è troppo sbrigativo. Non si può discutere con una persona che dimostra chiaramente di voler tagliar corto e di non voler decisamente prenderti in considerazione. Penso che il breve intervento di Fortini potrebbe essere da me utilizzato a mio favore («c’è da chiedersi se quel «no», almeno in una sua parte, non significhi anche una volontà di guardare oltre l’ottimismo «progressista»») e di accettare l’ascetico invito a continuare a lavorare anche per delle infime minoranze; o magari anche sperare che le «somiglianze» di oggi divengano «differenze» di domani.

Infatti io poi lavoro per delle infime minoranze, e se lavoro vuol dire che non dispero (benché detesti ogni ottimismo, che è sempre eufemistico). Solo che l’accanimento di Fortini a voler star sempre sul punto più avanzato di ciò che si chiama storia – facendo molto pesare ciò sugli altri – mi dà un istintivo senso di noia e di prevaricazione. Io smetterò di «dire che la storia non c’è più» quando Fortini la smetterà di parlare col dito alzato.

Quanto a Sciascia lo ringrazio per la sincerità della sua solidarietà (coraggiosa dato il linciaggio e l’atroce sospetto di essere addirittura una specie di Plebe lanciato su di me dai miserabili antifascisti dell’«Espresso»): ma sul suo discorso sulle brigate rosse c’è l’ombra dei vari biglietti scritti da Sossi: biglietti che a un’analisi linguistica mi son parsi di una tale insincerità, infantilismo, mancanza di umanità, da giustificare ogni sospetto.

É stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita «edonistico» che ha determinato il trionfo del «no» al referendum. Non c’è niente infatti di meno idealistico e religioso del mondo televisivo. É vero che in tutti questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito che cosa doveva e cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio «Carosello», perché è in «Carosello», onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani «devono» vivere.

E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. D’altra parte le trasmissioni di carattere specificamente religioso della Televisione sono di un tale tedio, di un tale spirito di repressività, che il Vaticano avrebbe fatto bene a censurarle tutte. Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione.

Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà.

Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà. Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace.

Se al livello della volontà e della consapevolezza la televisione in tutti questi anni è stata al servizio della democrazia cristiana e del Vaticano, al livello involontario e inconsapevole essa è stata invece al servizio di un nuovo potere, che non coincide più ideologicamente con la democrazia cristiana e non sa più che farsene del Vaticano.

Ciò che più impressiona camminando per una città dell’Unione Sovietica è l’uniformità della folla: non si nota mai alcuna differenza sostanziale tra i passanti, nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di essere seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma, nel modo di comportarsi. Il «sistema di segni» del linguaggio fisico-mimico, in una città russa, non ha varianti: esso è perfettamente identico in tutti.

Qual è dunque la proposizione prima di questo linguaggio fisico-mimico? É la seguente: «Qui non c’è più differenza di classe.» Ed è una cosa meravigliosa. Malgrado tutti gli errori e le involuzioni, malgrado i delitti politici e i genocidi di Stalin (di cui è complice l’intero universo contadino russo), il fatto che il popolo abbia vinto nel ’17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di fiducia negli uomini. Il popolo si è infatti conquistato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata.

Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla: anche qui non si nota più alcuna differenza sostanziale, tra i passanti (soprattutto giovani) nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di esser seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma nel modo di comportarsi. E si può dunque dire come per la folla russa, che il sistema di segni del linguaggio fisico-mimico, non ha più varianti, che esso è perfettamente identico in tutti. Ma mentre in Russia ciò è un fenomeno così positivo da riuscire esaltante, in Occidente esso è invece un fenomeno negativo da gettare in uno stato d’animo che rasenta il definitivo disgusto e la disperazione.

La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali.» L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui «deve» obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza.

L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una «falsa» uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale), è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente. Faccio un esempio, molto umile.

Una volta il fornarino, o cascherino – come lo chiamano qui a Roma – era sempre, eternamente allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero.

Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo ragazzo, era allegro.

Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione? La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità «reale». Oggi, questa felicità – con lo Sviluppo – è andata perduta. Ciò significa che lo Sviluppo non è in nessun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista. Esso non dà che angoscia.

Ora ci sono degli adulti della mia età così aberranti da pensare che sia meglio la serietà (quasi tragica) con cui oggi il cascherino porta il suo pacco avvolto nella plastica, con lunghi capelli e baffetti, che l’allegria «sciocca» di una volta. Credono che preferire la serietà al riso sia un modo virile di affrontare la vita. In realtà sono dei vampiri felici di veder divenuti vampiri anche le loro vittime innocenti. La serietà, la dignità sono orrendi doveri che si impone la piccola borghesia; e i piccoli borghesi son dunque felici di vedere anche i ragazzi del popolo «seri e dignitosi».

Non gli passa neanche per la testa il pensiero che questa è la vera degradazione: che i ragazzi del popolo sono tristi perché hanno preso coscienza della propria inferiorità sociale, visto che i loro valori e i loro modelli culturali son stati distrutti.

I comunisti che si illudono che (per esempio col referendum) si comincino a raccogliere le messi che essi hanno seminato, non si accorgono che la «partecipazione» delle masse alle grandi decisioni storiche «formali» è in realtà voluta dal potere; il quale ha appunto bisogno di un consumo di massa e di una cultura di massa. La massa «partecipante», inoltre, anche se formalmente comunista o progressista, è manipolata dal potere attraverso l’imposizione di «altri» valori e di «altre» ideologie: imposizione che avviene nel vissuto, e nel vissuto avviene dunque anche l’adozione. Sicché le masse vivono nuovi valori e nuove ideologie (il clericalismo da una parte, il progressismo dall’altra).

Purtroppo questo «momento» di immobilismo e di ufficialità del PCI è perfettamente rappresentato da Maurizio Ferrara nella sua polemica con me dalle colonne dell’«Unità». É vero che egli giunge a ingenerosità indegne di un dirigente del più grande partito italiano. Neanche il «Borghese» è mai giunto a mettere in dubbio una certa qualità della mia cultura, facendo a mio proposito nomi come quelli di Lombroso o di Carolina Invernizio. Ma questa è un’offesa che Ferrara ha fatto più ai lettori dell’«Unità» che a me. Ed è per rispetto a questi lettori che non ritorco su di lui il suo metodo.

In conclusione Ferrara non risponde politicamente a nessuna delle domande che io pongo.

  • Silenzio assoluto sulla mia ipotesi d’una sconfitta del PCI al referendum, in quanto le previsioni del PCI erano pessimistiche, fino alla paura addirittura della sconfitta. Segno di una analisi sbagliata della situazione reale del popolo italiano: e sbagliata in modo imponente.
  • Silenzio assoluto sul vuoto oggettivamente lasciato dal mondo contadino, coi suoi valori negativi e positivi.
  • Silenzio assoluto sui nuovi valori esistenzialmente adottati dai ceti medi, col conseguente superamento effettivo del clericalismo e del paleofascismo.
  • Silenzio assoluto sui caratteri «scandalosi» del nuovo fascismo, che vanificano l’antifascismo classico.
  • Silenzio assoluto sui rapporti razzistici coi fascisti giovani e adolescenti.

La risposta di Ferrara consiste:

  1. nella pura e semplice affermazione retorica della presenza del PCI (che nessuno ha mai messo in dubbio!)
  2. in una serie di illazioni nei miei confronti: consistenti prima di tutto nell’attribuirmi proditoriamente dei rimpianti che io non ho affatto.

Io non rimpiango l’Italietta: rimpiango l’immenso universo contadino e operaio prima dello Sviluppo: universo transnazionale nella cultura, internazionale nella scelta marxista.

In secondo luogo, Ferrara – impreparato di fronte alla «semiologia», scienza che di colpo egli si è trovato tra i piedi – mi accusa di culturismo e di estetismo semplicemente perché io mi vi riferisco. Sono le lacune culturali di Ferrara – che evidentemente non legge più un libro dai tempi di Lombroso e di Carolina Invernizio – che gli fanno sembrare esperienze estetiche tutte le esperienze che le sue lacune culturali e umane gli impediscono di fare.

Egli mi dà una qualunquistica lavata di capo dicendomi che non sono le facce, ma i cervelli della gente che contano. Ebbene, il cascherino di cui abbiamo parlato prima, attraverso la sua sola presenza fisica, rivela (come milioni di altri suoi simili):

  1. che nel suo cervello si sono depositati quei «valori» della civiltà capitalistica del consumo che fanno di lui un piccolo-borghese impotente a realizzare quei valori nella vita pratica;
  2. che, di conseguenza, o accetta lo sviluppo o il PCI del tout va bien;
  3. la sua frustrazione e la conseguente aggressività potrebbero accettare «anche» le parole d’ordine rivoluzionarie di «Lotta Continua» e di «Potere Operaio», perché egli è giunto ormai a quel livello di cattiva coscienza, e anche di volgarità, che gli consentono di accepire il messaggio estremistico (nel caso che esso fosse ancora lanciato da qualcuno).

Il fascismo è un pietoso rudere. L’inchiesta di Bocca e Nozza sul «Giorno» è un compitino sbagliato e noioso. Perché delle varie componenti che formano oggi in Italia il mosaico fascista hanno senso «unicamente» quelle che vengono manovrate dalla CIA e da altre forze del capitalismo internazionale, tutto volto alla conquista di mercati: cioè di nazioni allegre, abbastanza libere, abbastanza tolleranti, perfettamente edonistiche, per niente militaristiche e per niente sanfedistiche (tendenze, queste, incompatibili col consumo).

Ci può essere un caso limite come il Cile. In tal caso occorre la forza e un provvisorio ritorno al fascismo classico. In compenso ci sono però casi come quello del Portogallo, che doveva smetterla di essere una nazione severa, economa, arcaica: esso doveva essere immesso nel grande universo del consumo.

Così probabilmente l’America ha fatto mettere d’accordo De Spinola e Caetano. Tra i due il peggiore fascista «reale» è De Spinola (che fra l’altro mi dicono abbia combattuto con una formazione portoghese accanto alle ss): perché io considero peggiore il totalitarismo del capitalismo del consumo che il totalitarismo del vecchio potere. Infatti – guarda caso – il totalitarismo del vecchio potere non ha potuto neanche scalfire il popolo portoghese: il 1° maggio lo dimostra. Il popolo portoghese ha festeggiato il mondo del Lavoro – dopo quarant’anni che non lo faceva – con una freschezza, un entusiasmo, una sincerità assolutamente intatte, come se l’ultima volta fosse stato ieri.

É da prevedere invece che cinque anni di «fascismo consumistico» cambieranno radicalmente le cose: comincerà la borghesizzazione sistematica anche del popolo portoghese, e non ci sarà più spazio né cuore per le ingenue speranze rivoluzionarie. Ieri c’è stata una conferenza stampa di Marco Pannella. Parlando con meravigliosa vivacità, e allegria, malgrado una cinquantina di giorni di digiuno, Pannella ha detto una frase che forse pochi ascoltatori hanno colto: «Sono paleofascisti e quindi non fascisti.» Vorrei che questa frase facesse da epigrafe a questa nostra intervista.

Pasolini, 11 Luglio 1974, Scritti corsari (pubblicato sul “Mondo, intervista a cura di Guido Vergani).

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