I primi passi, Van Gogh – Interpretazione di D.Vescia

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Interpretazione di Domenico Vescia pubblicata sul Blog Tracce di Stupore.

Pennellate spesse e consistenti, intense come gli affetti familiari; tratti marcati e ben orientati, direzionati come il cuore di un genitore verso il figlio; colore denso e materico, concreto come l’amore che si nutre di braccia che si spalancano, di mani che sollevano, di ginocchia che si piegano, di piedi che corrono, di schiene che si protendono, di sguardi che si aprono e di occhi che si fanno luminosi come raggi di sole tra le nubi.

Con questo stile, con questo impeto, Vincent Van Gogh dipinge I primi passi, rielaborando un dipinto di Jean – Francois Millet. È il gennaio (o forse febbraio) del 1890, sei mesi prima della morte del pittore e, siccome niente avviene a caso, possiamo certamente affermare che l’opera racchiude un segreto di bellezza e di bene sulla vita e per la vita.

La casa sullo sfondo – parzialmente nascosta da due alberi di grandezza diversa ma accomunati dalla vivacità delle loro chiome – è il punto di partenza per analizzare adeguatamente la rappresentazione e coglierne tutti i significati.

È l’abitazione dei tre protagonisti della scena, il “nido” della famiglia, il luogo del loro ritrovarsi insieme. Ciò che, in quella casa, essi sperimentano è l’intimità dei loro legami: coniugale per l’uomo e la donna reciprocamente e genitoriale per entrambi.

È proprio quella loro intimità che essi ci rivelano, comunicandoci quel mistero di emozioni, sensazioni, slanci e palpiti che solo chi vive la relazione genitoriale può comprendere.

Un padre, vestito da contadino, con un ampio cappello di paglia sul capo e poveri zoccoli ai piedi, lascia per un momento il suo lavoro nell’orto della famiglia, quello da cui egli ricava il sostentamento per la moglie e per la sua bambina, il contesto in cui egli si affatica, portando nel cuore coloro che gli sono affidati.

Egli ha appena abbandonato la carriola e la sua vanga perché richiamato da un legame più forte rispetto a quello che lo unisce al lavoro della terra: è la voce dell’amore che risuona nel suo cuore e commuove le sue viscere, come si esprimerebbe la Bibbia.

Sua moglie e sua figlia sono uscite dall’abitazione incontro al marito e al padre.
La donna si china sulla piccola, la trattiene con le mani e la accompagna verso l’abbraccio del padre che si genuflette e protende tutta la sua persona per rendere ancora più eloquenti le sue braccia che si dirigono verso la sua bambina per invitarla ad andare verso di lui.

La piccola sembra non esitare, pronta a slanciarsi verso il padre e, nello stesso tempo, sicura dall’amorevole presa della madre. Possiamo immaginare in diversi modi il movimento della bambina. Forse la madre la lascia dopo averla accompagnata ancora un poco ed ella, barcollando pur senza cadere, raggiunge le braccia paterne. Magari la madre si trova
costretta a rialzare la piccola, caduta dopo essersi staccata dalla sua presa. La donna potrebbe anche accompagnare la figlia fino alla soglia dell’abbraccio paterno.

Ciò che è certo però è che la piccola giungerà tra le forti braccia protese di quel padre che non mancherà di accostare al suo cuore il viso di sua figlia. Negli istanti precedenti egli ha pensato a nutrire la sua creatura, procurandole il cibo; ora le dona ciò di cui ella ha ancora più bisogno: quell’amore, nella consapevolezza del quale potrà crescere serena e forte.

Tutta la scena è collocata nell’orto della famiglia. È recintato, dominato dal verde luminoso dei cespugli che lo delimitano al confine con la casa; è percorso dai solchi regolari, resi fertili dalla zappa con cui sono smossi e fecondi dall’acqua con cui sono irrigati. Al loro interno sono stati depositati i semi, in previsione dei frutti che costituiranno il nutrimento della famiglia.

Tutto è ordinato, pulito e armonioso, perché frutto di quella cura che solo l’amore può mettere in campo.

Un particolare non può essere assolutamente trascurato: alla destra della bambina si trova l’unico elemento vegetale che si discosta dalle tonalità del verde e dell’azzurro predominanti sulla tela. Un piccolo cespuglio mostra piccoli fiori di colore rosso. È il centro focale dell’opera, quello a cui conducono i due solchi più marcati lungo il campo arato.

Quei fiori rappresentano la vera forza, l’energia propulsiva, ciò che muove i gesti e fa palpitare i cuori dei protagonisti. Inducono a pensare che quelle braccia aperte del padre, quella cura delicata della madre e quella corsa malferma, ma fiduciosa della piccola sono destinate a seminare il campo della vita di azioni di bene che non conosceranno il passaggio dell’attimo o il trascorrere del tempo.

I fiori del cespuglio rappresentano la forza vitale dell’amore. Sei mesi prima della sua morte tragica, il disperato e malato Vincent Van Gogh ritrae una scena di una tenerezza infinita che parla di quel bisogno di amore e di cura che egli sperimentava ogni giorno.

Ma l’interpretazione più intensa che potremmo dare dell’opera è quella che ne legge le componenti in chiave teologica. Saremmo certamente autorizzati dallo stesso Van Gogh che – in gioventù – aveva desiderato dedicarsi alla predicazione ed era stato indotto dal fratello Theo ad utilizzare la pittura come canale comunicativo per parlare di Dio.

Quel bambino è ciascuno di noi, che porta scolpito nel cuore il desiderio di una relazione profonda e autentica con Dio. Ma ancor prima che possiamo renderci conto di questo, è Dio stesso a prendere l’iniziativa: si abbassa alla nostra altezza, proprio come fa il padre ritratto sulla tela, per incrociare il nostro sguardo, accarezzare il nostro volto, tendere le sue mani in un amorevole abbraccio.

È la kenosi di cui parla l’Apostolo Paolo: Dio si abbassa, addirittura “si svuota” pur di incontrare l’uomo. È solo nella relazione con Dio che ciascun uomo può vivere pienamente in quel simbolico “giardino rigoglioso” che rappresenta la vocazione alla felicità che il Creatore assegna ad ogni uomo e che rappresenta l’aspirazione più profonda che fa palpitare il cuore.

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